“Due tiri liberi sbagliati: così sboccia un allenatore”

“Due tiri liberi sbagliati: così sboccia un allenatore”

Riprendiamo la storia dalle prime puntate. Messina si appassiona al basket a Mestre e Venezia, dove il grande Tonino Zorzi gli chiude in faccia la porta da giocatore aprendogli un mondo. La passione divorante dell’adolescenza, gli studi universitari, le chiamate in successione di Celada, Mangano e Porelli. E il grande apprendistato da assistente di storici tecnici alla Virtus

Negli anni '70 gli anticipi e i posticipi erano meno in voga e la domenica era il giorno del basket. Per un ragazzino che viveva a Mestre, stregato dalla pallacanestro, il fine settimana era dunque il termine dell’attesa: biglietto del treno e via verso il palasport più vicino per lo spettacolo della Serie A. Magari era anche il giorno in cui finalmente Bob Morse passava da quelle parti, che fortuna. Poi, il lunedì, tutto da capo: si divoravano la Gazzetta e le riviste specializzate, si giocava al campetto con gli amici, cercando di imitare Brumatti o Recalcati. Sempre aspettando con impazienza la domenica successiva e i nuovi campioni da ammirare e tifare. Quel ragazzino diventerà coach Ettore Messina. Si affermerà in Italia, volerà in Russia, in Spagna, poi in America. Vincerà scudetti, Euroleghe, medaglie con la Nazionale. Allenerà Danilovic, Ginobili, Teodosic, Duncan. Verrà riconosciuto tra i migliori coach del mondo, sarà lui quello acclamato dai tifosi nei palasport. Dalla gloriosa “Misericordia”, la basilica veneziana dove per anni hanno giocato le squadre della Reyer, allo Staples Center, il palcoscenico cambierà, ma nel profondo il coach rimarrà sempre quel ragazzino di 14 anni con il polsino alla Lorenzo Carraro, quello che faceva follie per non perdersi la partita di Bob Morse. Quando coach Messina ricorda gli anni in cui l’amore per il gioco metteva radici profonde, la gioia è sincera: quell’entusiasmo fanciullesco si è mantenuto intatto, da Mestre fino a San Antonio. 

La sua famiglia ha tradizioni sportive?

“No, nessuna. Mio padre Filippo era una persona sedentaria. La pallacanestro era qualcosa di sconosciuto. Stessa cosa vale per mia mamma, Agata. Paradossalmente siamo stati mio fratello Attilio ed io i due sportivi. Nella prima squadra che ho allenato, nel 76/77, c’era anche lui: non giocava mai, era piccolino e mingherlino. A 17 anni allenavo i ragazzini di soli tre anni più piccoli di me: lui faceva le spese del mio desiderio di mantenere una disciplina e un ordine gerarchico in squadra. Per dimostrare che non facevo favoritismi finivo per esagerare. Alla fine lui si avvicinò al karatè e diventò poi campione nazionale, partecipando a Mondiali ed Europei. Tornando ai genitori, mio papà dava l’impressione di non seguire molto, ma poi alla sua morte ho trovato una scatola intera di ritagli di giornali che mi riguardavano. Mia mamma è tuttora molto presa invece”.

Nato a Catania, dove ha vissuto i primi 5 anni, la sua famiglia si è trasferita a Mestre: tappa decisiva. Come si è avvicinato al basket?

“Ho cominciato a giocare alle scuole medie. Avevamo una squadretta messa in piedi da noi: trovammo l’allenatore, ci comprammo le magliette e ci iscrivemmo al campionato. Giocavamo al patronato d’estate, ci piaceva tanto. Era una città che respirava pallacanestro: erano in serie A sia la Duco Mestre, sia in Laguna la Reyer Venezia. E il grande Tonino Zorzi era il mio insegnante di ginnastica al ginnasio. Fu proprio lui che m’indusse ad aprire la carriera di allenatore. Andò così: in un finale importante di partita, sbagliai due tiri liberi. E combinazione Zorzi era entrato in palestra un attimo prima. Qualche giorno dopo, il prof mi fece chiamare dal bidello in sala professori, ricordo benissimo: ‘Mi go visto tuto, ti ga sbagliato i tiri liberi, non hai piegato le gambe, non eri preparato mentalmente’. ‘Ma coach - gli dissi -: se l’ho vista entrare in palestra solo un minuto prima dei liberi!’ Alla fine mi spiegò che non ero tagliato per giocare, ma che vedendomi alle prese con i ragazzini in palestra pensava che potessi diventare un allenatore. Mi fece fare tutti i corsi: la Reyer me li pagò dal primo all’ultimo. L’anno seguente riuscirono persino a farmi entrare al famoso corso aspiranti allenatori, un mese a Roma per una full immersion di pallacanestro, giorno e notte. Me lo ricordo bene: lo teneva Tracuzzi e per me fu un’illuminazione. Fondamentale fu Renato Vianello, grande allenatore di settore giovanile della Reyer: mi conquistò quando ero un suo giocatore, e per imitazione mi fece venire il desiderio di allenare”.

Erano anche anni di contestazioni politiche.

L’impegno politico era centrale. Io e quelli come me, dediti allo sport, eravamo considerati un po’ alla stregua di chi che non voleva impegnarsi più di tanto sulle questioni importanti. Avevo amici iscritti alla Fgci, cioè all’organizzazione giovanile del Partito Comunista, che erano visti come democristiani!”.

Dopo quel corso a Roma già capì qual era il suo futuro?

“In realtà non ancora: ero appassionato, è vero, ma vivevo molto alla giornata. Avevo appena concluso il liceo, mi ero iscritto a Economia e Commercio a Venezia: la mattina studiavo e poi pensavo alla pallacanestro. Mi piaceva da matti stare in palestra, ma l’idea di farne una professione iniziò a concretizzarsi solo quando andai a Mestre, chiamato dal presidente Celada, ad allenare le giovanili. E lì mi pagavano. Quello stipendio mi dava un senso di grande indipendenza, mi sentivo un ometto. Grazie ai grandi allenatori che si occupavano dei vivai (Puglisi, Blasone, Casalini) costruirsi una carriera nel settore giovanile aveva un senso, iniziai a pensarci”.

Poi, nel 1982, il cambio di vita: prima il trasferimento a Udine, poi l’offerta della Virtus.

“Avevo 22 anni, pensavo fosse giusto iniziare ad uscire di casa. Cominciò con un po’ di tristezza: allontanarmi dalla mia famiglia e dalle sicurezze mi pesò all’inizio, ma fu un’esperienza formativa. Poi, dopo un solo anno come vice di Mangano a Udine, ecco l’offerta della Virtus. Era il maggio del 1983, ero al clinic di Bobby Knight, proprio a Bologna, quando Massimo Mangano un giorno mi disse di contattare l’avvocato Porelli. Alloggiavo in una modesta pensione, in via San Vitale. Figuriamoci se avevo il telefono in camera. Così, alle 7.30 del giorno dopo, scesi in strada e chiamai l’avvocato da una cabina. ‘Sto cercando un allenatore - mi disse - parliamoci domani mattina, vengo da lei in albergo’. All’idea di riceverlo nella mia pensione Perla sudai freddo, insistetti per raggiungerlo io. Alla fine mi offrì un contratto importante, ma con una peculiarità: io dovevo rimanere tre anni, ma lui avrebbe potuto mandarmi via dopo ogni stagione. Non ci pensai un secondo, afferrai al volo l’occasione. Mi presero per il settore giovanile e come assistente di Alberto Bucci, allenatore della prima squadra. Da lì a pochi mesi mi ritrovai in palestra con giocatori come Brunamonti, Bonamico, Villalta, di cui avevo solamente letto sui Giganti del Basket o visto in Tv con le cronache di Aldo Giordani. Fu un’esperienza incredibile: pensare poi che al mio primo anno avremmo vinto lo scudetto della stella… Sono stato anche fortunato nella mia carriera. Ho incontrato persone che mi hanno fatto fare l’allenatore in momenti e in situazioni in cui io stesso non avrei scelto Ettore Messina. Tonino Zorzi che mi diede in mano la squadra allievi di un prestigioso club a soli 17 anni. Porelli che mi volle alla Virtus a 23 anni e poi la stessa società che mi scelse come capo allenatore a 29. Ancora più incredibile fu Petrucci che mi offrì il ruolo di ct azzurro a 33 anni. Opportunità e fortuna: mettiamola così. La buona sorte conta, ma sei pronto a coglierla solo se hai lavorato tanto e sei preparato. Però può capitare anche il contrario: essere bravi e meritevoli, ma non avere l’occasione giusta”.

Durante tutta la prima parte della sua carriera, lei non ha mai smesso di studiare, fino alla laurea in Economia e Commercio: che cosa le ha lasciato l’esperienza di studente?

“Moltissimo: il liceo classico, più ancora dell’università. Mi ritengo fortunato. Ho finito gli esami in tempo, prima di andare a Bologna, anche tenendo una media alta. Poi il difficile fu scrivere la tesi mentre allenavo. Un tormento: ci misi un anno intero. Sono tuttora affascinato dal mondo universitario, quello americano in particolare, dove riescono a combinare efficacemente studio e sport”.

Bologna. La sua città di adozione. Cosa ricorda di quando arrivò? Qualcosa che la colpì particolarmente?

Mestre e Udine erano due piccole città, molto famigliari come impostazione. Avete presente Totò quando sbarca a Milano? Mi sentivo così al mio arrivo a Bologna: alle prese con la ‘metropoli tentacolare’. Quello che mi colpì davvero fu il palazzo dello sport. Non avevo mai visto niente di simile: enorme, sempre pieno, sembrava di essere in America. Il parterre frequentato da donne elegantissime, gli abbonati che si salutavano e si conoscevano, un’atmosfera unica”.

Da ragazzo a Mestre però aveva già frequentato palazzetti e campionati.

Non c’era domenica senza una partita di pallacanestro. Avevo 15 anni, andavo con gli amici in pellegrinaggio o a Vicenza a seguire la Reyer, la mia squadra, o a Castelfranco per vedere la Duco Mestre di Renato Villalta. Andata e ritorno in treno. La passione era sconfinata: il lunedì mattina, appuntamento fisso per sfogliare la Gazzetta dello Sport per i tabellini, poi Superbasket. Sono i ricordi più vivi che ho della mia adolescenza. Indimenticabile il riscaldamento prepartita a Vicenza, quando risuonava l’Anonimo Veneziano: ogni volta che lo risento, torno a quei momenti. Ma a Bologna era tutto ad un altro livello, cose che avevo solo letto sui giornali fino a quel momento”.

Chi erano i suoi idoli cestistici da ragazzo, e perché?

“Ho fatto delle follie per vedere Bob Morse. Avevo forse 16 anni, Varese giocò una partita infrasettimanale a Vicenza, era pieno inverno, aveva nevicato. Tornai tardissimo. Non vi dico i miei. Poi ammiravo giocatori come Carlo Recalcati e Pino Brumatti. Potevo un po’ rivedermi in loro, quando ancora giocavo. Non erano atleti devastanti, ma tiravano bene, passavano, sapevano inventare. Mi affascinava poi Manuel Raga, ma lui era un marziano: salti, schiacciate, atletismo. Io non sarei mai potuto diventare quel tipo di giocatore. Nella testa di un ragazzino come me, Recacalti e Brumatti erano ciò a cui potevo ambire. Poi Aldo Ossola era un altro che mi colpiva tantissimo. Dettava i ritmi, la palla volava. Atleti dal fisico normale in cui potevo immedesimarmi. E a proposito dei grandi che ammiravo, ricordo un evento del 2008 quando col Cska giocammo le Final Four di Madrid: in quell’occasione fu organizzata la ‘Cerimonia delle Leggende’, per i 50 anni della Coppa, furono premiati i 50 Greatest Contributors tra cui 10 allenatori, 35 giocatori, 5 tra dirigenti e arbitri. Eravamo tutti nello stesso hotel e incontrai Manuel Raga, Ossola e tutti i miei idoli del passato, leggende che da ragazzino mi avevano fatto sognare. Una sensazione stranissima: mi sentivo come se fossi tornato ai miei 16 anni, mentre loro mi vedevano per quello che ero diventato, l’allenatore italiano del Cska. La cerimonia si tenne durante il riscaldamento della semifinale. Dopo, per tutto il primo tempo mi sentivo come intontito. Salire sul podio insieme con tutti quei personaggi leggendari fu un’emozione fortissima. Poi razionalmente, ripensando alla mia carriera, alle vittorie, realizzavo che potevo starci anch’io con loro. ‘Ma non sarò mica avvicinabile a leggende come Peterson o Bianchini?’. Lo pensi, ma fai fatica a sentirti veramente al loro livello”.

Si ricorda il suo primo ingresso al Palazzo dello Sport di Bologna?

Trofeo Battilani, il mio primo torneo. Andalò, il popolare custode, il boss della palestra, colui che aveva tutto il potere nel palazzetto, mi apostrofò all’ingresso: ‘Cinno, dove vai?’ Io veramente sarei l’assistente di Bucci’, risposi. Mi squadrò, controllò e poi mi fece passare”.

Nei suoi anni da assistente ha affiancato allenatori che hanno avuto una grande influenza su di lei: partiamo da Alberto Bucci e Sandro Gamba.

“Di Alberto mi sconvolse immediatamente la carica umana e l’attenzione alla preparazione mentale. Era la prima volta che vedevo da vicino una tale attenzione allo stato psicologico della squadra: capiva se doveva mettere pressione o toglierla, se doveva trasmettere tranquillità, se c’era bisogno di parlare individualmente con qualche giocatore. Avevo 24 anni e mi affascinava anche la personalità con cui lui teneva testa all’avvocato Porelli, un osso durissimo: si batteva per le sue convinzioni e la squadra lo seguiva. Contro Milano, in una finale che tutti immaginavano avremmo perso, noi andammo lì pensando che potevamo vincere. Aveva lavorato su questo tutto l’anno, una grande personalità. Sandro Gamba arrivò da noi che aveva 53 anni: era come se fossi al cospetto di un grande e stimato professore. Avevo letto i suoi libri, divoravo la sua colonna di tecnica ospitata proprio dai Giganti del Basket, la prima cosa che scorrevo. Sandro Gamba incarna un modo di fare l’allenatore, di comportarsi. Tuttora è una persona con cui ho un legame speciale: all’epoca mi affezionai a lui come se fosse un padre. Ho ammirato la sua dignità, non è stato facile allenare a Bologna per lui: le cose non andarono così bene”.

Poi il grande Cosic, che torna alla Virtus nella veste di allenatore, e Bob Hill, l’americano che veniva da un’esperienza ai New York Knicks. Personalità diverse da quelle che li avevano preceduti? 

“Nel 1987 arrivò Cosic. Se Gamba era organizzato, preciso, metodico, Cosic era l’opposto: ex giocatore di un talento pazzesco, conoscitore totale della pallacanestro, ma con un metodo didattico tutto suo. Aveva delle grandi intuizioni: per esempio, è stato il primo che mi ha fatto capire l’importanza delle guardie nella pallacanestro moderna. La stagione 1987/88 cambiammo Floyd Allen, un pivot vecchio stampo, con Kyle Macy, un playmaker. Per me, che sono un metodico, non fu facile raccapezzarmi in questo ambiente creativo e poco strutturato: trovavo rifugio nelle mie squadre giovanili. Nel 1988, altra figura carismatica: arriva Dan Peterson come gm. Fu una botta di adrenalina. Anche l’avvocato Porelli si rivitalizzò e così, insieme a diversi giocatori importanti (Micheal Ray Richardson, Mike Sylvester, Clemon Johnson), chiamò proprio Hill, l’americano. Che inizia a fare allenamenti al mattino, a chiacchierare a lungo con i giocatori, a bere cappuccini, a indossare il vestito prima della partita e non arrivare già pronto al campo. Cose tipicamente americane, un assaggio di Nba: come veniva gestito l’allenamento, l’importanza di curare il rapporto individuale con i giocatori, la strategia dei time out”.

Mentre ‘studiava’ come assistente si occupava anche del vivaio. Allenare i ragazzi è sempre stata una soddisfazione per lei?

“Sì, mi è sempre piaciuto molto dedicarmi ai giovani, tant’è che quando guidavo la Nazionale, durante l’inverno allenavo l’Under 18 e l’Under 20. Sono rimasto convinto che un giocatore possa perfezionarsi ad ogni età. Uno dei più grandi orgogli della mia carriera fu l’aver aiutato Brunamonti a vincere il premio di miglior giocatore del campionato nel 1993, quasi 15 anni dopo la prima volta, negli anni '70: qualcosa di irripetibile. Roberto nella sua carriera è stato capace di trasformarsi quando le gambe iniziavano ad essere meno forti: è diventato più bravo come passatore e si è costruito un gran tiro da 3. È stata la dimostrazione pratica di quello in cui ho sempre creduto: che anche a 35 anni si può migliorare. Non è una cosa che tutti accettano: molti giocatori considerano un allenatore bravo quando sa sfruttare al meglio le caratteristiche acquisite. Due modi molto diversi di pensare”.

Con i successi e l’affermazione ha iniziato più a gestire i gruppi o ha sempre continuato ad allenare come faceva con i ragazzi?

Assolutamente la seconda, lo faccio tuttora. Mi è rimasta impressa nella mente una frase di Robert Busnel, ex presidente della Fiba, ad un clinic a Pesaro a inizio anni '90: ‘La tattica è per un giorno, la tecnica è per la vita’. Con la tattica puoi nascondere i tuoi difetti finché non incontri qualcuno che è più bravo di te. Ma se tecnicamente sei il migliore, non c’è tattica che tenga”. 

© Riproduzione Riservata
Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 30-36

Giulia Arturi

Ti potrebbero Interessare

Inizia a scrivere a premi Enter per cercare