“Il destino Virtus bussa due volte”

“Il destino Virtus bussa due volte”

Sei anni di apprendistato e poi una telefonata notturna dall’America del gm Mancaruso: “Buongiorno, volevo dirle che lei è il nuovo allenatore”. Dall’altra parte del filo il silenzio timoroso di un tecnico trentenne. “Il mio primo pensiero fu: come faccio a guidare Richardson?”. Ma Messina parte col botto. E non si ferma più. Ecco la storia di un rapporto unico: dieci stagioni piene di indimenticabili successi, con andata e ritorno. E un finale traumatico

Il Milan di Sacchi, i Lakers di Phil Jackson, la Milano di Peterson. Talvolta nell’immaginario collettivo il ricordo di una grande squadra viaggia ancorato ad un allenatore. È la consacrazione: l’impronta del coach è talmente riconoscibile da fare storia. Così è stato per la Virtus di Ettore Messina. O meglio, per le due Virtus. La sua storia a Bologna si articola in tre puntate. Del prequel, i sei anni di apprendistato, abbiamo già parlato. Le altre due, intervallate da una felice parentesi azzurra, porteranno 3 scudetti, 2 Euroleghe, 4 coppe Italia e il Grande Slam del 2001. Quella di Danilovic prima, quella di Ginobili poi. Due squadre che hanno interpretato la pallacanestro con un “brand” di gioco personale, che coach Messina ha dotato di un’anima gagliarda e vincente, destreggiandosi tra personalità ingombranti e una sfibrante rivalità cittadina

Bologna per coach Messina non è solo pallacanestro. È una grande famiglia che l’ha accolto da ragazzo e lo ha rilasciato uomo. È la città della vita: tanti amici, posti, sensazioni. Il luogo dove ha apprezzato per la prima volta l’importanza di un ambiente caldo, affiatato, familiare, che ha trovato e contribuito a ricostruire nel corso di tutta la sua carriera: da Mosca, a Treviso, fino a San Antonio. La pallacanestro non si esaurisce in palestra, quando i riflettori si spengono. È un’esperienza di più ampio respiro: “La parte del mio lavoro che mi ha sempre affascinato è l’aspetto della condivisione delle conoscenze: perdi, vinci, viaggi, mangi, tutto sempre insieme - racconterà il coach -. Poi tutti i protagonisti ne conservano memoria. Mi sono sempre legato molto alle persone, che portano con sé ricordi molto intensi: di una relazione, di un momento. È l’essenza del significato dello sport”.

La sua storia da capo allenatore inizia nel 1989, quando Bob Hill, una volta partito per l’America, decide di non tornare più.

“Bob aveva ancora due anni di contratto, verso fine luglio iniziarono a girare voci che forse non sarebbe tornato dagli Stati Uniti. All’epoca l’avvocato Porelli era presidente onorario, mentre la società era guidata da Paolo Francia e dal gm Alessandro Mancaruso, cui toccò di andare in America per capire cosa avrebbe fatto Bob. Io ero a Cavalese con la mia famiglia, nella solita pensioncina senza telefono in camera. Di notte mi contattò la reception: c’era una telefonata dall’America per me, così scesi frettolosamente. Era proprio Mancaruso che, con grande felicità, esordì così: ‘Buongiorno, volevo dirle che lei è il nuovo allenatore della Virtus’. Io rimasi di sasso, in silenzio. ‘Scusi ma non mi dice niente, non è contento?’ continuò lui. Sul momento l’unica cosa che riuscii a replicare fu: ‘Be’, guardi glielo dirò a fine stagione se sono contento”.

A trent’anni si trova al timone di una delle società più gloriose e difficili d’Italia, la Virtus. Il suo primo pensiero?

Micheal Ray Richardson: come faccio ad allenarlo? Pensai questo. Era un giocatore di enorme talento che aveva sempre avuto libertà tecniche e tattiche. Non riuscii più a riaddormentarmi: da lì a tre giorni avremmo iniziato la preparazione, c’erano tantissime cose su cui riflettere, a partire dalla composizione dello staff tecnico”.

Il suo percorso di apprendistato come assistente durò sei anni: come li ha vissuti? Era impaziente di arrivare alla responsabilità tecnica piena di quella squadra o di un’altra?

“Il primo contratto che firmai con la Virtus era di tre anni, con una clausola: l’avvocato poteva decidere dopo ogni anno se tenermi o no. Era quasi Natale, era la mia prima stagione e avevo appena perso un derby con i cadetti quando l’avvocato mi convocò e mi disse: ‘Sono molto contento del tuo lavoro, tolgo la clausola’. Fu un gesto di fiducia enorme e negli anni successivi Porelli mi ‘adottò’, trattandomi sempre con riguardo. Non esplicitò mai niente, ma percepivo che c’era un clima da ‘tutto questo un giorno sarà tuo’. La possibilità mi spaventava: gli allenatori alla Virtus non duravano molto. Io guadagnavo bene, allenavo le giovanili e mi piaceva; se avessi potuto fare carriera in quel settore con soddisfazione avrei firmato per sempre. Speravo che il salto accadesse il più avanti possibile, quando mi fossi sentito pronto. Il rischio di perdere una parte importante della mia vita mi preoccupava. Quello che accadde con Bob Hill accelerò le cose e mi trovai paracadutato alla guida della serie A, con un contratto di due anni. Ero così legato a quello che facevo che feci mettere una clausola: se fossi stato esonerato sarei potuto tornare alle mie squadre giovanili”.

Si ritiene un pessimista?

“Quella era la mia vita al momento, non mi immaginavo allenatore di serie A. E poi sì: sono pessimista di natura; non vedo mai il bicchiere mezzo pieno. Pensavo che quella di tecnico di serie A sarebbe stata una breve parentesi, non volevo iniziare una vita di continui spostamenti. Avrei preferito tornare nelle giovanili e allenarle per vent’anni”.

Lo stress da panchina quanto pesa? Come lo gestisce?

“Pesa molto, fosse per me farei allenamento tutti i giorni e manderei qualcun altro alle partite. Anche con squadre fortissime è sempre stato gravoso: più si va avanti, più si va bene, più le richieste crescono. Si vince l’Eurolega? La stagione successiva quantomeno bisogna riprovarci. Quando le aspettative salgono, si rischia che in campo la pressione sia troppa. È un punto fondamentale. Mi affascina molto infatti la capacità di Pop di non prendersi troppo sul serio per smorzare la tensione”.

Torniamo alla Virtus. Il capitano Brunamonti era suo coetaneo, alcuni giocatori erano più vecchi di lei. È mai stata una preoccupazione quella di essere credibile? Ci fu qualcuno in particolare che la aiutò quando muoveva i primi passi come capo allenatore?

“Dal punto di vista della mia preparazione tecnica e tattica ero sereno. Le mie preoccupazioni maggiori riguardavano i rapporti interpersonali. ‘Sarò in grado di farcela?’, mi chiedevo. Non ci dormivo la notte. Ricordo un episodio chiave, che coinvolse Richardson: ‘Micheal, è chiaro che qui sei la persona più importante - gli dissi davanti a tutta la squadra -, se non ti vado bene puoi farmi mandare via quando vuoi. Ma il prossimo che arriva, e quello dopo ancora, ti diranno le stesse identiche cose. Vedi tu quanti allenatori vuoi far cambiare’. Da allora ci siamo voluti bene. Poi fu fondamentale Brunamonti. Era un’istituzione: il solo fatto che lui si dedicasse con impegno ad eseguire ciò che chiedevo, valeva coma una legittimazione davanti agli occhi di tutti. Se aveva qualcosa da dire lo faceva in maniera collaborativa e costruttiva. E quando i due giocatori più importanti ti accettano subito, la squadra ti segue”.

Alla sua prima stagione, 1989/90, vinceste coppa Italia e coppa delle Coppe.

“Erano andati via Bonamico e Villalta, e avevamo preso un giovane Coldebella. C’erano delle novità e delle incertezze a livello di previsione. Allenatore esordiente, partenze illustri: poteva capitare di tutto”.

Come fu misurarsi per la prima volta con il basket europeo?

“Affascinante. Ero convinto che la grandezza del club dipendesse molto dal fare bene in Europa. Avevamo partecipato fino a quel momento solo ad una coppa dei Campioni, l’anno dopo lo scudetto del 1984, ma non era stata un’esperienza fortunata. Comunque quella stagione la coppa delle Coppe non era affatto un obiettivo realistico, tant’è che i giocatori chiesero un premio davvero alto per l’eventuale vittoria e la società accettò. Nessuno ci avrebbe mai creduto! Ci impegnammo molto in trasferta a giocare con attenzione, la squadra fu molto ricettiva. Personalmente partecipare alle coppe mi è sempre piaciuto: viaggiare, misurarsi con i campioni, giocare nei palazzetti leggendari. Nella stagione 1990/91 arrivammo terzi e ci qualificammo per l’Eurolega: fu come aver vinto lo scudetto”.

Nel 1992 ci fu un momento di svolta: arrivò Sasha Danilovic.

“Nella stagione 1991/92 giocammo contro il suo Partizan Belgrado, allenato da Obradovic, nei playoff di Eurolega, competizione in cui eravamo esordienti. Erano gli anni della guerra nei Balcani, tanto che il Partizan giocò tutta la stagione regolare a Badalona. La Fiba gli permise di tornare a casa per i playoff e noi fummo l’unica squadra, di qualsiasi sport, che venne mandata a giocare una partita a Belgrado. Alla fine perdemmo: Danilovic aveva già fatto intendere di essere un grande giocatore. Lo ingaggiammo per l’anno successivo”. 

L’arrivo di Danilovic coincise anche con il suo primo scudetto da capo allenatore, nel 1993. Percorso netto nei playoff (7-0) e in finale batteste 3-0 Treviso segnando 97, 108 e 117 punti. Eravate inarrestabili?

“Quell’anno passammo attraverso la finale di coppa Italia persa a marzo contro la Benetton, poi cedemmo nei quarti di Eurolega contro il Real Madrid. Non mancò qualche crisi di nervi, ma poi cambiò tutto quando, quasi casualmente, modificai la posizione di Bill Wennington. Mi ero ostinato a farlo giocare vicino a canestro, invece era meglio che si muovesse più lontano. Quando entrava in ritmo con il suo tiro riusciva anche ad aiutare di più la squadra a rimbalzo e in difesa. Grazie a questo piccolo aggiustamento si aprirono spazi in attacco, la squadra si rasserenò. Giocammo quei grandi playoff, senza mai perdere”.

Dopo tre stagioni lasciò la panchina della Virtus per guidare la Nazionale italiana.

“Nel dicembre del 1992 Petrucci mi chiese di diventare ct azzurro e ne parlò con il presidente Cazzola. Io decisi di accettare. Sul momento non mi resi conto che stavo urtando i sentimenti del presidente. Lui dimostrò grande classe, ma sicuramente ci rimase male: mi aveva rinnovato da pochi mesi il contratto, dimostrandomi grande fiducia. La maglia azzurra e la Nazionale però erano speciali, presi la decisione con irruenza. In generale nella mia vita ho fatto poche scelte ponderando a lungo. Non riesco quasi mai ad analizzare pro e contro col bilancino, decido d’istinto”.

Com’è maturato il Messina bis alla Virtus nel 1997?

La Nazionale è stata per me un’esperienza formativa: sono cresciuto come persona e come allenatore. L’ultimo anno, quello degli Europei 1997 ero contento di come stavano andando le cose, ma iniziavo ad avere il desiderio di ricominciare ad allenare una squadra di club, di stare in palestra tutti i giorni. La Federazione mi aveva offerto il prolungamento del contratto, ma dentro di me c’era la paura di andare male agli Europei e di mancare la qualificazione ai Mondiali (figuriamoci se pensavo alla medaglia). Ero preoccupato di prendere un impegno e di non fare risultato. A inizio anno stavo riflettendo su tutto questo, quando, già sicuri dell’Europeo, andammo in Macedonia a giocare l’ultima partita delle qualificazioni. Il presidente Petrucci, pressato dalla stampa, voleva una risposta. A Pesaro, prima di partire, spalancò la porta della mia camera e una volta per tutte mi chiese cosa avevo intenzione di fare. Gli comunicai allora che avrei preferito trovare un club. Era febbraio, non avevo in mano niente, era un salto nel buio. Poi la Virtus e Bucci quell’anno si separarono, la stagione la finì Roberto Brunamonti, che però voleva fare il dirigente. Il presidente Cazzola riprese i contatti con me; il dottor Dorigo, lo sponsor, aiutò molto a rinsaldare i vecchi rapporti tra me e lui, e verso fine campionato arrivò la proposta formale. Io non ci pensai un secondo, anche se i ritorni non sono sempre fortunati. La società aveva programmato una specie di sbarco in Normandia a livello di rinforzi. Prendemmo Antoine Rigaudeau, strappammo Ale Frosini alla Fortitudo, Brunamonti scovò Nesterovic; poi c’erano Abbio, Sconochini, Savic. Una squadra pazzesca”.

L’hanno mai spaventata le aspettative molto alte?

“No, io al momento non mi rendevo neanche conto. Ero sinceramente contento di tornare in un ambiente che potevo chiamare casa, e non percepivo il rischio enorme che stavo correndo. Se le cose fossero andate male forse il protagonista di questo numero dei Giganti del Basket sarebbe stato qualcun altro!” (risata).

Il suo ritorno alla Virtus, coincise con quello di Danilovic. Ci racconta qualcosa del vostro rapporto nel corso degli anni?

“Una metafora abusata, ma in questo caso calzante, è quella del puledro di razza da domare. Era competitivo fino all’estremo e io lo affrontai nell’unico modo che mi veniva naturale, in maniera dura ed energica. Nel 1992 ero giovane e impulsivo, non potevo calarmi nel ruolo di un padre, più tollerante, come potrebbe essere un Popovich adesso. Dietro le quinte mi diede una mano Dusko Vujosevic: era in Italia perché in Jugoslavia c’era la guerra, aveva un rapporto bellissimo con Sasha e sono sicuro che mi aiutò nel suo inserimento. Poi il ritorno insieme nel 1997: io avevo finito l’esperienza con la Nazionale, lui rientrava in Europa dopo due anni di Nba. Sasha Danilovic era un personaggio importante, e quei primi mesi non furono facili. Lui era Sasha: aveva un contrattone, tornava dall’America, era estremamente esigente nei confronti di tutti, pretendeva il massimo da se stesso e dagli altri. Però è sempre stato rispettoso del ruolo dell’allenatore: trovava il modo giusto di dire le cose ed in campo dava tutto. Considerata ogni cosa e il mio modo di allenare, talvolta irruento, qualche scontro è capitato. C’è stato anche un periodo in cui non comunicavamo tanto. Uno dei momenti più difficili fu la sconfitta in coppa Italia contro la Fortitudo. Sasha fece una cosa fondamentale: andò in sala stampa e con le sue dichiarazioni sminuì il successo dei rivali. Scatenò una bufera, ma in questo modo si era attirato addosso tutto l’odio e il clamore, isolando la squadra da contestazioni e critiche. Mi resi presto conto che aveva delle pressioni in città insopportabili: era l’alfiere di una delle due metà. Verso la fine della stagione cominciammo a parlare di più, soprattutto di questa difficile situazione. Forse ci siamo aiutati a vicenda a diventare più tolleranti e pazienti. In momenti della mia vita complessi mi è stato sempre molto vicino. Abbiamo caratteri opposti, ma io gli sono sinceramente affezionato”. 

La stagione 1997/98, quella dei derby in Eurolega, della famosa rissa con la Fortitudo e della finale scudetto vinta a gara 5, segnò il picco del clima di rivalità in città?

“Sì, ognuno, di una sponda o dell’altra, può raccontare episodi a riguardo. Mi ricordo che persino andando a fare la spesa o correndo ai Giardini Margherita mi ritrovavo ad essere insultato. La partita della rissa, gara1 dei playoff di Eurolega, entrai in campo scortato. Il clima era difficile, ma riuscivamo a sdrammatizzare concentrandoci su alcuni aspetti goliardici. Zoran Savic non aveva paura di niente (e non me ne stupisco vista la stazza e la personalità). Durante il riscaldamento al PalaDozza, guardava i tifosi e li provocava. Poi la finale scudetto: tutte le prime quattro sfide furono vinte dalla squadra in trasferta. Sotto 2-1 nella serie tornammo a casa della Fortitudo per gara 4, una missione complessa. Sconochini e Savic, molto amici, durante la sessione di tiro del mattino, per scherzare, decisero che, in caso di vittoria, sarebbero andati sotto la curva fortitudina a mostrare i muscoli. Con 13 punti di svantaggio a 10 minuti dalla fine, io e Consolini decidemmo di provare la zona, un tentativo estremo. Non segnarono più e vincemmo di tre punti. Al palazzetto si scatenò l’inferno, un clima da campo ateniese. Corremmo tutti in fretta e furia verso lo spogliatoio, ma Zoran e Hugo si fermarono, si guardarono complici e tornarono sotto la curva della Fortitudo. Ancora non ci credo, ma si tolsero veramente la maglietta per mostrare i muscoli!”. (risata)

Lo scudetto si decise in gara 5, quella del famoso tiro da 4 di Danilovic, con fallo di Dominique Wilkins.

Ho riguardato spesso quella partita: viene da chiedersi com’è possibile che alla fine siamo riusciti a vincere. A cinque minuti dalla fine eravamo ancora sotto, così a due minuti. Poi ci fu il fallo e canestro da 4 punti di Danilovic. Finita la partita andammo al ristorante di Brunamonti per festeggiare ed eravamo tutti come attoniti, quasi senza le forze di esultare, prosciugati. Furono una partita e una serie irripetibili dove l’aspetto mentale giocò un ruolo importantissimo. Sconochini e Abbio furono decisivi, non solo in quella occasione: determinanti durante tutta la stagione”.

Prima della finale scudetto, il trionfo in Eurolega vi tolse pressione?

“La vittoria dell’Eurolega arrivò alla fine di un percorso che ci aveva visti giocare un girone e delle Top 16 ottimi. Poi i derby nei quarti contro la Fortitudo, con la rissa e tutto quello che ne seguì. C’è un episodio che non mi sono mai dimenticato. Palau Sant Jordi, Barcellona. Stavo preparando la lavagna, dove come sempre appuntavo i tre punti chiave in attacco e in difesa. Sentii dietro di me dei giocatori parlottare: ‘Hai preso tutto vero? I sigari?’. ‘Sì, ho tutto in borsa, non ti preoccupare’. Lì per lì non prestai attenzione. Dopo la vittoria contro l’Aek Atene i ragazzi tirarono fuori i sigari, gli spray per colorarsi i capelli e tutto il necessario per festeggiare da campioni d’Europa. Allora collegai. Ripensandoci mi chiedo ancora se davvero fossero così convinti di vincere! Nessuno fa una cosa del genere, porta sfortuna nera. E pensare che, cinque mesi prima, la stessa squadra aveva perso la semifinale di coppa Italia contro la Fortitudo. In semifinale giocammo con il Partizan Belgrado, che avevamo battuto due volte in stagione regolare. Alla vigilia avevo qualche preoccupazione, ma vincemmo facilmente. Erano come soggiogati dalla personalità dei loro connazionali più famosi, Danilovic e Savic, i nostri. Il giorno seguente, in finale, fu il turno dell’Aek, del mitico Ioannidis: giocavano una pallacanestro di possesso, ti tenevano in difesa per 30 secondi, era una lotta. Non fu una sfida bellissima da vedere, ma affascinante dal punto di vista emotivo e tattico, ci volle una grande pazienza per prendere piccoli break e mantenerli. Savic vinse il premio di Mvp delle Final Four, giocando da numero 4; lui che inizialmente voleva fare il centro a tutti i costi. Se ce lo avessero detto sei mesi prima!”.

L’anno successivo non fu all’altezza.

“Nella stagione 1998/99 partì Savic e non azzeccammo la scelta del secondo americano. Vincemmo la Coppa Italia contro Varese, e poi in campionato perdemmo tutti derby, salvo poi redimerci in quello più importante, in semifinale di Eurolega a Monaco; fu per l’ennesima volta la madre di tutte le partite. In finale perdemmo contro lo Zalgiris, eravamo stravolti, con un Danilovic a mezzo servizio. Il campionato 1999/2000 fu una stagione triste e mediocre, nonostante grandi investimenti. Stombergas ed Oikonomou non lasciarono il segno. La definirei una squadra malinconica che non riuscì mai a fare bene, complici i tanti infortuni di Danilovic e Rigaudeau. In ogni caso giocammo la finale di Saporta e quella di coppa Italia, perdendo contro la Benetton di Piero Bucchi. A distanza di 20 anni, fa riflettere che un campionato in cui conquisti due finali, di cui una internazionale, si ricordi come pessimo”. 

Manu Ginobili arrivò alla Virtus nell’estate del 2000, è vero che la prima scelta era in realtà Andrea Meneghin?

“Ciò che avvenne in quegli anni fu grazie a imprenditori che investivano grandi capitali nelle due squadre bolognesi e tutto avveniva per effetto riflesso. Era come la grande gara mondiale fra Stati Uniti e Russia: la corsa alla luna negli anni '60. Andrea era appena stato il miglior giocatore del campionato, era tra i più forti d’Europa. Lo avevamo praticamente preso e lasciammo quindi andare Ginobili. Dopo 24 ore cambiò tutto: Meneghin finì alla Fortitudo e virammo frettolosamente su Manu, che per Consolini era sempre stata la prima scelta. Io confesso che sarei stato più contento di avere Meneghin, non avevo ancora percepito fino in fondo il potenziale e il talento di Ginobili. Nel primo mese di allenamento, senza i giocatori impegnati alle Olimpiadi, Manu ogni giorno ci ha fatto vedere un numero diverso; Giordano ed io ci guardavamo quasi increduli: ‘Ma questo qua è vero?’ Aveva poi un entusiasmo straripante, un’energia inesauribile. Si fece voler bene subito da tutti, era facile confrontarsi con lui: serio, educato, determinato. In quei due anni alla Virtus fece delle magie; ancora oggi confesso che vado a riguardarmi gli highlights”.

E pensare che lui, secondo i piani iniziali, avrebbe dovuto essere il cambio di Sasha Danilovic.

“Tornato dalle Olimpiadi, Sasha si presentò per il primo allenamento con tutto il peso della sua personalità. Tirò una sola volta, per il resto del tempo passò la palla e studiò i compagni. Gli altri erano un po’ circospetti, era come se il grande capo fosse tornato. In squadra avevamo una sfilza di campioni, il mercato era stato l’ennesima guerra atomica contro la Fortitudo. Parlando con il mio staff (c’erano Lele Molin, Francesco Cuzzolin, Giordano Consolini) manifestai un po’ di preoccupazione sul riuscire a trovare spazio per tutti. La sera dopo il primo allenamento di Sasha, ero a casa con mia moglie e squillò il telefono. ‘Ciao, sono Sasha. Volevo dirti che da oggi non sono più un giocatore, ho deciso di smettere’. Testuali parole. Io rimasi stordito, tanto che non riuscii neanche ad abbozzare un tentativo di dissuaderlo. Ero stupefatto, ma capii che, come Platini, voleva lasciare in un momento in cui era ancora Sasha Danilovic. La cerimonia di saluto fu pazzesca. In un PalaMalaguti pienissimo, l’annuncio del suo ritiro fu vissuto tra le lacrime. Un momento intenso. A quel punto, Manu piano piano diventò Manu: si tolse gli abiti di Clark Kent e si trasformò in Superman. Con lui non c’era molto da inventare: bastava un blocco per liberarlo e poi lui creava. Quando s’imbatteva in un ostacolo, rimbalzava indietro ma poi trovava il modo di superarlo. Nel primo derby con la Fortitudo la sua prestazione fu mediocre, due mesi dopo nel derby di Eurolega ne segnò 30. Iniziammo a giocare in maniera diametralmente opposta a quella dell’Eurolega del 1998: correvamo, attaccavamo in transizione, palla dentro e palla fuori, usavamo il tiro da tre punti. Fu molto gratificante dal punto di vista personale riuscire a sperimentare delle novità e imparare a convivere con questi ragazzi. Spesso quando stavo per mettermi le mani nei capelli ne usciva poi un’azione bellissima”.

A cavallo tra il 2000 e il 2001 siete stati i protagonisti di una striscia di 33 vittorie consecutive.

“Eppure tra ottobre e dicembre avevamo vissuto un periodo difficile culminato con una sconfitta in campionato a Udine, dove arrivammo con troppa convinzione e spavalderia. Fissai un allenamento la domenica, eravamo stati davvero troppo superficiali. I giocatori se ne resero conto e si applicarono con impegno. Manu ancora oggi se lo ricorda, tanto che dopo un insuccesso analogo con gli Spurs mi chiese: ‘Ora ci sarà allenamento come dopo Udine?’. Da quel momento iniziò l’incredibile striscia di 33 vittorie. Arrivai al punto di ipotizzare che alcune partite, quando già eravamo certi della qualificazione in Eurolega, sarebbe stato meglio perderle; stavamo iniziando a pensare troppo a difendere questo record. Ma in quel periodo non riuscivamo proprio a uscire dal campo battuti: anche quando ormai sembrava arrivato il momento, qualcuno si inventava una magia. La fine arrivò contro la Stefanel Trieste di Cesare Pancotto. Ma per due mesi fummo invincibili, era impressionante”.

Come rivive dal punto di vista tecnico la prima trionfale stagione del ritorno (1997/98) rispetto a quel 2000/01?

Nel primo caso sentivo di avere in mano molto potenziale, caratterialmente mi trovavo a mio agio. Era una formazione inquadrata, poco estemporanea, logica e con pochi fronzoli. Dopo la A ti aspettavi sarebbe arrivata la B e se si facevano bene A e B allora sarebbe arrivata la C. Fu molto diverso invece allenare la squadra di Ginobili e Jaric: mi sono evoluto lavorando con loro, sia dal punto di vista umano che tecnico. Con loro poteva venire fuori una bellissima D, senza sapere come. Il mio compito diventava dunque cercare di metterli nelle condizioni di riprodurre situazioni di gioco efficaci, anche se inaspettate. Nella stagione del mio ritorno a Bologna dopo la Nazionale, la sfida più grande fu aiutare a sviluppare una sinergia tra due personalità importanti e diverse come Rigaudeau e Danilovic. È come avere Roberto De Niro e Dustin Hoffman sul set: non imponi le cose, ma sono loro che si devono conoscere e capire, trovando i giusti tempi in cui intervenire. Il mio compito era accompagnarli a fare questo. Fino a poco tempo prima avevo guidato una Nazionale in cui avevamo inserito molti giovani: il modo di allenare era diverso, avevo un differente impatto sulla squadra. Un’altra situazione da gestire era quella di Zoran Savic. Lui era convinto di essere ancora un grande pivot, io pensavo che il suo fisico non gli permettesse più di dominare sotto canestro, volevo che giocasse da numero 4, in post alto, aprendo gli spazi. Chi la ebbe vinta? Alla vigilia della seconda di campionato lessi un’intervista a Zoran sul Resto del Carlino, dove si lamentava della sua posizione in campo. Avevo messo in chiaro che quel genere di cose non dovevano uscire dallo spogliatoio; mi imbestialii e, davanti a tutta la squadra, gli comunicai che non avrebbe giocato. La settimana successiva andammo a Barcellona, lui giocò ancora da 4, in coppia con Nesterovic e fece un’eccellente prova. A distanza di anni mi ringraziò in un’intervista: quella decisione gli allungò la carriera. La morale è che il modo di convivere e di parlarsi è la parte centrale del lavoro di un allenatore”.

Dal momento dell’esaltazione a quello più buio: l’esonero della stagione successiva.

“Evidentemente ognuno dei protagonisti, me compreso, ha pensato di essere stato molto più indispensabile nei successi della squadra di quello che era davvero. Ci furono dei grossi malintesi e fraintendimenti. La stagione era partita sulle ali dell’entusiasmo: vincemmo la Coppa Italia. Facevamo più fatica, ma continuavamo a vincere. Successe che, 48 ore dopo la qualificazione alle Final Four di Eurolega, andammo a Pesaro e perdemmo malamente. Il presidente Madrigali mi disse che dovevo fare un passo indietro. Io non avevo avuto avvisaglie, ma ripensando all’andamento delle cose, forse valutai male. A quel punto ci fu la sollevazione dei tifosi che tutti ricordano, e Madrigali mi chiese di tornare. Sbagliando, accettai: ero talmente desideroso di giocare le Final Four in casa, a Bologna, che non ci pensai neanche un secondo. Ma ormai si era creata una rottura e si finse fino alla fine, quando in realtà non c’era più niente da dirsi. Non ho mai voluto tornare a quei giorni con la mia testa, per analizzare in profondità cosa successe. In ogni caso, quando le relazioni finiscono, la colpa non è mai solo da una parte. Ho capito che se si arriva a quel punto, nel percorso ci si è parlati troppo poco. Umanamente fu anche imbarazzante. La gente aveva preso una posizione forte nei miei confronti. La protesta generale fu sorprendente e nel dispiacere del momento fu una dimostrazione di affetto importante. Adesso, a distanza di anni, ci ridiamo sopra, ma all’epoca fu traumatizzante. Nonostante questo, a fine campionato crollò tutto”.

Il suo basket ideale, dal punto di vista tecnico: com’era e com’è?

“Io sono stato sempre stato etichettato come un allenatore difensivo, che controlla il ritmo della partita. Mi ci ritrovo abbastanza, non amo le squadre che prendono brutti tiri. Non è una questione di tirare presto o tardi, ma di capire quando farlo, di creare un vantaggio. La Virtus di Brunamonti e Richardson giocava controllando il ritmo e se c’era un problema lo risolvevano loro due di puro talento. La squadra di Manu Ginobili andava nettamente più veloce; quella di Danilovic, Savic e Nesterovic giocava più controllata, con molti blocchi. Ogni realtà ha avuto la sua pallacanestro: quella di Papaloukas e Langdon a Mosca era ancora diversa dalla Treviso di Edney, Garbajosa, Nicola. Credo di aver dimostrato quantomeno la disponibilità intellettuale ad adattarmi ai giocatori che ho avuto, e con grande piacere. Ci sono dei principi comuni che bisogna accettare: in attacco la palla bisogna condividerla e in difesa tutti devono fare sacrifici. Quando ci si convince dell’importanza di questi due banali postulati, nella metà campo offensiva cerco di trovare la soluzione migliore”.

Nelle tante interviste che ha rilasciato, è capitato che si definisse umorale e creativo. Si ritrova ancora?

“È vero. Credo di essere creativo perché non mi fossilizzo su una convinzione, mi piace cercare soluzioni diverse che possano aiutare i miei giocatori ad essere efficaci in campo, anche di giorno in giorno. Probabilmente sono più creativo dal punto di vista difensivo, però poi succede che quando gli addetti ai lavori vengono a vedere i miei allenamenti rimangono stupiti: infatti vedono che il 70% del lavoro è per l’attacco. Schemi, fondamentali, collaborazioni. Il tempo che dedico alla difesa è poco a livello di esercizi, ma molto dal punto di vista mentale”.

Come gestisce le vittorie e le sconfitte? “

Qua c’entra il mio essere umorale: io perdo malissimo e non vinco tanto bene. Mi succede di essere troppo duro dopo una vittoria, con me stesso e con la squadra, per la preoccupazione che non sia una condizione duratura. La sconfitta l’assorbo molto invece: mi capita di pensare di essere scarso, di non aver aiutato abbastanza i miei giocatori, e mi arrabbio se non hanno fatto una prestazione al loro livello”. 

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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 38-61

Giulia Arturi

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