Springfield, l’apice del mio feticismo

Springfield, l’apice del mio feticismo

Che fascino suscitavano in me scarpe, indumenti e trofei. Ma non ricordatemi quelle “cappellette” con gli allenatori... 

Confesso che ho perso ogni flebile traccia di feticismo per il basket dal lontano 1973. Era uno dei miei primi viaggi negli States e fu inevitabile che, dovendo scegliere tra le cascate del Niagara e il Museo del Basket di Springfield, mi indirizzassi decisamente su questa seconda meta.

Fu un’interessante esperienza antropologica sul modo americano di creare dei miti attorno ai personaggi dello sport. Allora il Museo era ancora su un’area limitata ma già poteva annoverare nel consesso del suo Olimpo mitologico le reliquie di personaggi eccellenti, ancora vivi e vegeti. Le loro maglie, i loro trofei, frammenti di indumenti che li facevano riconoscere, stavano in esposizione con un senso del sacro che intimidiva.

Mi meravigliai che non ci fossero lampade votive, ex-voto, stampelle di miracolati, foto di arti che ritrovavano la loro funzionalità. Il sacro non aveva ancora raggiunto la compiutezza del miracolo, ma i fedeli non avevano alcun dubbio che presto o tardi un miracolo si sarebbe avverato. Mi muovevo lungo le varie installazioni quando mi fermai incuriosito nei pressi di una bacheca di cristallo circondata da un capannello di visitatori in venerazione.

Mi feci largo tra gli adoratori e scoprii che si trattava delle scarpe da basket n. 60 di Bob Lanier che come tutti sanno lasciò delle grandi impronte nella storia del basketball a stelle e strisce. Restai perplesso a osservare quei due gozzetti mal ridotti, compiacendomi del fatto che la teca mi proteggeva dalla prevedibile puzza che essi potevano emanare e ripresi il mio cammino.

Le sorprese non erano finite. Al termine del percorso, l’ultima sala era stata progettata come l’abside di una chiesa gotica. La parete semicircolare che concludeva l’ambiente mistico mimava il coro dei santi raffigurati nelle nicchie, ma al posto dei beati c’erano le immagini di grandi allenatori.

A partire da Naismith ciascuno aveva la sua cappelletta con il nome e la data di nascita e quella della morte. Tuttavia la santificazione dei coach non si limitava ai morti ma comprendeva anche i vivi eccellenti. Grande fu il mio disappunto quando mi trovai davanti alla cappelletta di Cesare Rubini affrescato come un cardinale Principe non di Santa Madre Chiesa ma di Santo Padre Basket che portava in alto sulla sinistra dell’affresco la sua data di nascita e a destra puntini, puntini, lo spazio per la data della eventuale morte. Mi toccai immediatamente quel che si doveva toccare e per un attimo pensai a cosa avrebbe detto il Principe se si fosse trovato un giorno davanti a quella cappella. 

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Giganti # 6 (ottobre 2018) | Pagina 114

Valerio Bianchini

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