Pesaro, una famiglia

Il settore giovanile e l’assistentato in prima squadra, prima vice di Sacco e poi di Bianchini… Uno scudetto da vice e uno da capoallenatore, alla prima esperienza, a neanche trent’anni… E poi il McDonald’s, la Final Four di Coppa dei Campioni, grandi giocatori, mille avventure… Soprattutto, la sensazione di essere parte di un pezzo di storia, forse irripetibile

Pesaro è stata la prima. Unica ed indimenticabile. La città delle esperienze più corrosive, più intense, proprio perché le più nuove, ad un livello più alto rispetto a quello a cui era abituato. Si può dire che l’allenatore ed il tecnico Sergio Scariolo siano nati in riva all’Adriatico, negli anni tra il 1985 e il 1991. Praticamente dopo aver frequentato le scuole medie del basket nella sua Brescia, a Pesaro Scariolo ha fatto liceo e università, con tanto di laurea, conseguita con lo scudetto del ’90 come allenatore più giovane a fregiarsi del tricolore nella storia del basket italiano. Ma la sua storia pesarese comincia qualche anno prima. 

Scariolo, come e quando nasce la sua storia con Pesaro?
«Il primo contatto avvenne perché Giancarlo Sacco da allenatore ad interim fu promosso capo allenatore e quindi, visto che lui era il responsabile del settore giovanile, in società serviva una figura che prendesse il suo posto, oltre che un vice allenatore per la prima squadra. Così il general manager Vito Amato chiese un’opinione a Santi Puglisi, allora responsabile del settore squadre nazionali della Federazione. E Puglisi gli fece il mio nome».

Una gran bella opportunità...
«Ero stato responsabile del settore giovanile a Brescia negli ultimi due anni, prima di andare alle Forze Armate. Quindi la cosa mi interessava perché immaginavo di poter passare da un settore giovanile di medie dimensioni come era quello di Brescia ad uno di alto livello come quello pesarese, che aveva piani per diventare ancora più importante e cominciare a reclutare giocatori da fuori città, cosa che fino a quel momento non era mai stata fatta. Infatti erano famose le bande dei “Dieci Nani”, tutti pesaresi assatanati, ma piccoli, che a livello Ragazzi ed anche Allievi facevano ottimi risultati, ma già quando arrivavano ad essere Cadetti si fermavano, non ce la facevano più a livello fisico».

Lei accettò immediatamente?
«La mia risposta fu rapidissima: la cosa mi interessava molto. La società era molto importante, il posto bello, c’era un capo allenatore che mi piaceva: non ebbi dubbi».

Cosa sapeva di Pesaro, città e società?
«Quel che potevo sapere per averci giocato contro da avversario con Brescia, o che potevo leggere sui quotidiani e sulle riviste specializzate. Pesaro negli ultimi anni era stata sempre ai vertici, aveva giocato la finale playoff nel 1982 ed aveva vinto la Coppa delle Coppe nel 1983».

Come fu il primo impatto?
«Fui impressionato dal fatto che il club aveva strutture all’avanguardia per il settore giovanile: il pallone tensostatico, gli spogliatoi, la sala pesi. E poi la città era fantastica. Una passione tremenda, dappertutto e con chiunque ti fermassi a parlare si respirava basket. Quindi l’impatto fu bellissimo. Avevo 24 anni, ero poco più di un ragazzino, ed ero solo, ma l’accoglienza e l’ospitalità da parte di tutti mi aiutarono a vincere ogni difficoltà iniziale».

Quali furono i suoi primi compiti?
«Aiutare Giancarlo Sacco con la prima squadra, fin dall’inizio ebbi un bel rapporto con lui, considerando soprattutto che allora non era consuetudine che un capo allenatore delegasse molto al vice. Però Giancarlo ascoltava quello che gli dicevo, ed io mi sentivo non solo ben accettato, ma anche coinvolto. Facemmo un grande lavoro, anche le strutture sono cresciute, come la foresteria, la sala pesi di Baia Flaminia, avevamo la possibilità di reclutare ogni volta un po’ di più. Di quel periodo ho solo ricordi piacevoli, in particolar modo per quello che riguarda le persone, partendo dalla famiglia Scavolini, che merita un capitolo a parte. Ma ho avuto un sacco di persone intorno con le quali sono ancora oggi in contatto». 

Dell’attività giovanile, di quale aspetto è più orgoglioso?
«Forse che si sia creata una scuola, della quale hanno fatto parte persone che poi hanno fatto percorsi importanti. Gianluca Pascucci, Stefano Cioppi, Lucio Zanca, che si sono inseriti in un contesto già avviato da Sacco, ma nei miei quattro anni siamo riusciti a far crescere i vari Riccardo Paolini, Umberto Badioli, Roberto Pifferi, lo stesso Giampiero Hruby, Stefano Bizzozi. Anche Paolo Calbini, che allora era giocatore e poi è diventato allenatore di un certo livello». 

C’è invece qualcosa che non è riuscito a portare a termine?
«Nella vita di ognuno c’è qualcosa di incompiuto. Ricordo che quando passai alla prima squadra avevo appena reclutato PierFilippo Rossi, che poi purtroppo non ho mai potuto allenare. Magari incompiuto può essere stato quel grande progetto che era Giulio Rossi, un autentico pesarese, l’unico 2.10 che si è visto in quegli anni, che purtroppo non riuscimmo a far diventare un giocatore di alto livello. Non un rimpianto nei suoi confronti, ci mancherebbe altro, è che forse non riuscimmo a trovare il tasto giusto per poterlo far crescere».

C’è una squadra a cui è rimasto più affezionato?
«Premettendo di non voler fare differenze con nessuno, ammetto di avere un grandissimo affetto per la mia squadra del 1967, la prima che presi. Un gruppo di veri pesaresi come i vari Minelli, Talevi, Vellucci, Del Prete, Aureli, Preti, più quelli che per primi vennero reclutati da fuori: Guidofranco, Merlitti, Cipolat, Del Cadia. Anche se poi la squadra che è arrivata più avanti è stata quella del 1970-1971-1972 con altri giocatori di un certo livello come Cristiano Cocco, Gianluca DeAmbrosi e Matteo Panichi, che forse può rappresentare un po’ un mio motivo di orgoglio».

Perché?
«Lo reclutai con molta pazienza, parlando molto con i suoi genitori, assicurandoli che il ragazzo avrebbe avuto una formazione al di là della pallacanestro, come in effetti poi è stato. Effettivamente il caso di Matteo rappresenta un po’ quella che era la mia idea nel reclutare un giocatore da fuori città: che avesse talento, che fosse una persona in gamba e che potesse continuare a crescere al di là del basket, perché ad un certo momento la pallacanestro sarebbe potuta finire, come infatti è successo. Dopo aver giocato da professionista gli si sono aperte le porte di un'altra carriera di altissimo livello, da preparatore fisico ed atletico».

Qualcuno su cui invece ha scommesso che non ha mantenuto le aspettative?
«Qualche altro nome in testa ce l’ho, ma cito Cristiano Cocco, un giocatore che tutti volevano, di grande classe, che eravamo riusciti a strappare ad una concorrenza acerrima. Purtroppo non mantenne tutte le aspettative che ci eravamo proposti all’inizio della sua avventura». 

Partite che le sono rimaste nella memoria?
«Beh ci fu una sconfitta in una semifinale nazionale Cadetti, a Roseto, contro la Virtus allenata da Ettore Messina. Quella fu sicuramente una partita storica: venimmo espulsi sia io che Ettore, e ci trovammo entrambi in tribuna, seduti l’uno accanto all’altro a vedere la partita. E’ una cosa che ogni tanto torna fuori ancora oggi e su cui ridiamo insieme, quando ci capita di ricordarla».

A livello giovanile vincere è bello, ma non è il fine ultimo.
«Infatti il senso del settore giovanile è creare giocatori. Far girare la ruota, alimentare una scuola, mandare avanti il ciclo. La vittoria dei titoli in sé non è fondamentale, anche se è ovvio che quando si arriva alle finali nazionali poi si vuole competere fino alla fine. Centrammo un paio di terzi posti in un regime di concorrenza tremendo, magari le semifinali perse di un soffio possono rappresentare un rimpianto, la vittoria in una finalina una piccola soddisfazione, ma ripeto, non era questo lo scopo principale. Infatti credo che nessuno si ricordi bene dei titoli giovanili vinti o persi, mentre ci si ricorda dei giocatori, specie quelli arrivati poi in prima squadra».

Apriamo il capitolo da assistente della Vuelle. Cosa le ha insegnato la sua esperienza da vice allenatore?
«Da tutti i capi ho appreso qualcosa, a tutti sono grato, anche se ovviamente in forma diversa. Vorrei che sia chiaro un concetto: fare il vice è un’esperienza che raccomando a qualsiasi giovane allenatore, ed anche per un periodo lungo, senza la fretta di voler diventare presto un capo. Io sono stato fortunato perché ho avuto la possibilità di essere contemporaneamente vice della prima squadra e responsabile del settore giovanile, con la possibilità di sperimentare, mettere in pratica quel che apprendevo con i grandi. Ci sono mille aspetti positivi nel fare l’assistente, si gode di un osservatorio privilegiato, senza il peso di dover prendere decisioni determinanti in un secondo».

Com’è il vice allenatore ideale?
«E’ quello capace di comprendere ciò che il capo allenatore vuole, assorbire totalmente i suoi sistemi, avere un livello di lealtà altissimo, sapere in qualunque momento cosa può e cosa non può fare, cosa può e cosa non può dire. Ma allo stesso tempo deve avere personalità, per poter dare idee al suo capo. Inoltre deve avere l’umiltà di accettare che i suoi suggerimenti non vengano ascoltati, mantenendosi comunque pronto a tirarne fuori un altro subito dopo».

Ha lavorato al fianco di alcuni mostri sacri.
«L’esperienza per me decisiva come assistente è stata quella all’inizio con Riccardo Sales. Lui è stato quello che mi ha insegnato il mestiere, mi ha dato le primissime indicazioni e a volte anche qualche rimprovero, facendomi capire l’importanza della cura del dettaglio. Mi ha insegnato tanto non solo su aspetti tecnici e gestionali, ma anche l’etica della professione. Dopo di lui con Giancarlo Sacco e Carlo Rinaldi ho avuto la fortuna di vedere al lavoro ottimi allenatori che avevano una visione meno scolastica, didattica, rigida, rispetto a quella che avevo io all’inizio. Capaci di sdrammatizzare, portati a maggior vicinanza nel rapporto allenatore-giocatore, non dico a livello amichevole ma sicuramente senza quella separazione che immaginavo ci dovesse essere sempre fra le due figure. E dopo questi corsi universitari, il master finale è stato con Valerio Bianchini, dal quale ogni giorno si imparava una lezione diversa: sulla gestione, sul cosa dire, sul trasmettere messaggi all’interno ed all’esterno. E poi di tattica, in partita, soprattutto nei playoff, lì Valerio era proprio un maestro».

In quei primi anni Milano era più forte, ma siete sempre rimasti ai vertici.
«Sì, Milano sulla carta era più forte anche se le differenze nella serie A1 di allora erano forse più attenuate rispetto a quella di adesso. Però Milano aveva non solo organico ma cultura vincente, per struttura societaria e politica. Noi effettivamente riuscimmo a fare buone cose, avevamo il fuoco dello sfidante che provava a buttar giù dal piedistallo il monumento consolidato. Abbiamo vinto due scudetti, un’impresa incredibile per una cittadina di 100 mila abitanti che sfidava una metropoli di tre milioni. Grazie ovviamente ad un grande mecenate come Valter Scavolini, ma anche al lavoro di tantissime persone, allo sforzo di tanti, dentro e fuori la società. Sto parlando di tutti i tifosi che ci hanno spinto e sono stati protagonisti di quel fattore campo che allora solo in viale dei Partigiani si poteva creare».

Da assistente, non le è mai capitato di mordere il freno? O di pensare: io avrei fatto così, non cosà…
«No, non ho mai morso il freno e non ho mai avuto fretta di diventare capo allenatore. Non ho mai sentito nessun tipo di ansia. Sì, c’erano momenti nei quali suggerivo qualcosa di diverso, o non mi trovavo del tutto d’accordo con quello che si faceva, ma questo piccolo disagio l’ho risolto abbastanza semplicemente, con il senso di disciplina, lealtà e onestà che mi hanno sempre accompagnato. Questo è stato il grande insegnamento di Riccardo Sales, e grazie a questo credo di essere stato un buon capo allenatore per i miei assistenti, ed un buon assistente per i miei capi».

Che rapporti aveva con i giocatori? Si confidavano?
«Un rapporto un po’ più stretto rispetto a quello con il capo, ma fin dall’inizio ho scelto di mettere subito in chiaro che io per loro ero un allenatore, non un giocatore aggiunto. Quindi sì, a volte mi facevano arrivare qualche input diverso, che poi io potevo filtrare o trasmettere al capo: anche questa è una funzione dell’assistente. Però nessuno si è mai approfittato della situazione, né ha cercato una spalla su cui piangere, o che desse loro ragione in caso di conflitto con il capo».

Come e in cosa è cambiato negli anni il ruolo dell’assistente allenatore?
«Il ruolo è cambiato molto, soprattutto a livello tecnologico, oggi c’è la necessità di dominare strumenti che un tempo non esistevano. Sia per acquisire informazioni, sia per poi elaborarle e presentarle ai giocatori. Ci sono più assistenti in uno staff, la tendenza è andare verso la specializzazione, che nel mondo NBA è già molto marcata. E’ un po’ scomparsa la figura del vice-tuttofare, si va invece verso un gruppo più ampio di assistenti che possano dividersi il lavoro. Che tra analisi dell’avversario, studio della propria squadra, sviluppo dei giocatori, è molto più pesante».

Oggi lo Scariolo capo allenatore vorrebbe accanto a sé lo Scariolo assistente di quegli anni?
«Domanda curiosa, fatico a dare una risposta. Tutti siamo in evoluzione, cambiamo come professionisti e come esseri umani. Chiaro che il modo in cui ho fatto l’assistente a Nick Nurse a Toronto è stato sicuramente più produttivo del mio essere assistente all’inizio della carriera. Ma direi che è nella natura delle cose. Sicuramente lo Scariolo assistente di quegli anni pesaresi aveva grande entusiasmo, energia, passione, le qualità che allora erano necessarie per fare l’assistente, e magari anche quelle che poi un giorno avrebbero portato al salto. Però non c’è dubbio che l’assistente di oggi è mediamente molto più qualificato di quello di allora. Ma una volta quando un assistente emergeva le società spesso erano portate a promuoverlo, adesso capita molto meno».

Da assistente ha vissuto momenti storici: il primo scudetto pesarese…
«Come tutte le prime volte, ebbe un sapore speciale. Con questo senso di rivincita nei confronti di una Milano che ci aveva tenuto sotto per tanto tempo. Io poi ero molto giovane, per cui lo vissi diversamente rispetto a come vivo i titoli di ora, ma è logico, troppo diverso il livello di esperienza e di maturità. Ricordo benissimo la mega tavolata tricolore, in viale Trieste, che finì nel Guinness dei Primati, migliaia di persone sedute a tavola, praticamente l’intera città in strada, qualcosa di fantastico».

Poi il McDonald’s Open, a Madrid, con i Boston Celtics di Larry Bird, il Real Madrid di Drazen Petrovic e la stupenda nazionale della Jugoslavia.
«Altra esperienza unica, incredibile. Ci trovammo nel ricevimento prima dell’inizio assieme a Larry Bird, Robert Parish, Kevin McHale, Danny Ainge: che emozione! E poi c’era Drazen, con il suo Real Madrid, che ci batté in semifinale. Veramente un grande ricordo, anche perché fu il mio primo vero contatto diretto con il mondo dell’NBA. Prima al massimo ero stato a vedere delle Summer League, dove a volte in tribuna capitava qualche mostro sacro, o in campo qualche rookie che poi sarebbe diventato un grande giocatore dopo».

E siamo al 1989, semifinale scudetto, il famoso episodio della moneta che colpì Dino Meneghin a Pesaro in gara1.
«Ho imparato ad essere cauto nell’esprimere opinioni quando non ho tutti i dati a mia disposizione. Quel che è sicuro è che Meneghin avrebbe potuto continuare a giocare: lo ha ammesso lui stesso. Indubbia è anche l’inciviltà del gesto. Sul fatto poi che un giocatore possa arrogarsi il diritto di dare una lezione alla maleducazione altrui, uscendo dal campo e smettendo di giocare, onestamente ho dei dubbi molto forti. Poi la moneta lo ha colpito ed i regolamenti parlano chiaro, su questo c’è poco da dire. Aggiungo che osservai da dietro le quinte tutto il movimento politico che si scatenò prima della sentenza del giudice, e quando dico politico intendo nel senso letterale della parola: Craxi che spingeva da una parte, Forlani dall’altra. Ma possiamo discuterne quanto vogliamo, ormai è storia». 

Perché dopo lo scudetto dell’88 Pesaro mandò via Darwin Cook, uno degli artefici del primo tricolore?
«Fu una decisione della società. Io non ero tanto coinvolto in quel tipo di decisioni, ma l’idea fu quella di cercare un giocatore migliore. Ci provammo con Larry Drew, che era un’ottima persona ma a cui mancava impatto fisico, benino in tutto ma grande in niente. Poi ci fu Norm Nixon, un grande nome, che fece qualche buona partita, ma i cui giorni migliori erano ormai alle spalle».

1989, il grande salto. Diventa capo allenatore. Decisione a sorpresa, o era nell’aria?
«Quando Valerio Bianchini decise di andarsene, in società c’erano due correnti di pensiero: una sosteneva che era giusto dare la squadra a me, l’altra che si doveva cercare un allenatore esperto. Il nome che girava era quello di Mirko Novosel. Sinceramente io ero tranquillo, avevo ancora il contratto da assistente e non avevo fretta. Certo mi sentivo pronto in caso di una chiamata, ma allo stessotempo ero già a mio agio nella struttura e non avrei avuto alcun problema a fare un altro paio d’anni da assistente. A maggior ragione ad un santone come Novosel. La decisione finale la prese Valter Scavolini. Lui ascoltava tutti, ma alla fine l’ultima parola era la sua».

Torna Darwin Cook, di rinforzo arrivano Alessandro Boni e Paolo Boesso.
«Si partì dal richiamare Cook. Sul suo ritorno ci fu unanimità totale, Drew e Nixon non avevano funzionato. Era un rischio, perché Darwin stava imboccando la parte finale della carriera, ma il ricordo del suo carattere e della sua leadership era ancora molto vivo. E poi feci la scelta, questa più mia, di prendere due giocatori di spessore per la panchina che potessero cambiare due ruoli: Boesso sarebbe stato in campo con Cook o Gracis, con uno di questi due da play, mentre Boni avrebbe preso il posto di Magnifico e Costa come numero 4 o 5. Ci eravamo resi conto che troppi giocatori finivano per pestarsi i piedi, rubarsi minuti l’uno con l’altro, senza che nessuno si sentisse comodo e in fiducia. Invece con Boesso e Boni potevamo contare su una quindicina di minuti garantiti e con uno spazio più o meno fisso per esprimersi meglio rispetto a quelli che c’erano prima, che pure erano ottimi giocatori».

La sua prima stagione da head coach fu trionfale: primo posto in regular season e nei playoff 2-1 a Roma, 2-1 a Caserta e 3-1 a Varese. Tutto facile?
«In effetti in stagione regolare tutto andò bene. Poi però c’era quella formula disgraziata dei playoff, le prime quattro che riposavano saltando il primo turno, che spesso era un boomerang. Trovammo nei quarti un Messaggero gasatissimo, mentre noi eravamo un po’ addormentati, così perdemmo gara1 a Pesaro. Tre giorni dopo gara2 contro una Roma fortissima: Brian Shaw, Danny Ferry, Roberto Premier, eccetera. Lì fu decisivo Valter Scavolini, che dopo la partita persa in casa salì in spogliatoio e, con calma serafica, disse: “Ragazzi, cambiate quelle facce, andiamo a vincere a Roma e da lì non ci fermiamo più”. Andò proprio così. Pur con qualche partita tirata, giocammo una grandissima pallacanestro, in difesa, in attacco, trovammo proprio la quadratura del cerchio. Chimica perfetta, dando davvero l’impressione che tutto fosse facile. E se anche non ci fosse stato l’infortunio a Meo Sacchetti in gara2 di finale, che fra l’altro perdemmo, sono convinto che avremmo comunque vinto lo scudetto. Chiaro però che perdere Meo per Varese fu una botta non da poco».

In Coppa Korac le cose andarono diversamente: rischiate di uscire con l’Hapoel Tel Aviv, arrivate in finale, ma perdete gara1 di un punto in casa con la Joventut Badalona, e poi anche gara2.
«In Korac arrivammo bene in finale, ma quella Joventut aveva José Montero, Reggie Johnson, Lemone Lampley, Rafa  Jofresa: era uno squadrone. In casa perdemmo di un niente, a Badalona restammo a lungo avanti, potevamo vincerla, poi grazie anche al fattore campo lo spunto finale fu loro. E bisogna riconoscere che vinse la squadra più forte».

Il secondo scudetto fu meno sentito rispetto al primo?
«No, il secondo non fu meno vissuto del primo, anzi! La sensazione di forza che diede la squadra nel corso di tutta la stagione fu esaltante. Il problema fu che Valter Scavolini, appassionato cicloamatore, fece purtroppo una brutta caduta dalla bici, si ruppe diverse ossa, e si sospesero tutti i festeggiamenti, programmati ancora in grandissima scala, per il secondo tricolore. Certo rispetto al primo, pensando anche alla leggendaria tavolata di due anni prima, la festa fu in tono minore, ma solo per via dell’incidente a Scavolini».

Secondo anno da head coach, arriva Giovanni Grattoni al posto di Boesso. Un po’ poco, per chi voleva fare strada anche in Coppa Campioni?
«Il secondo anno effettivamente il grande obiettivo era la Final Four di Coppa dei Campioni, un traguardo storico per Pesaro che non solo non c’era mai arrivata, ma non ci arrivò mai più. Le energie erano concentrate soprattutto sull’Europa. Paolo Boesso, che pure aveva fatto abbastanza bene la stagione prima, preferì andare a giocare da titolare ad un livello più basso. Volendo mantenere la struttura dell’anno prima al suo posto prendemmo Grattoni, un giocatore di spessore, però senza allungare la panchina, ed in effetti fu un errore. Per tener botta sui due fronti, italiano ed europeo, non bastava».

Primo flashback: il McDonald’s Open, a Barcellona, in ottobre. Arrivate a un niente dal battere i New York Knicks.
«Quella grandissima partita contro New York ce l’avevamo veramente in mano. Avremmo potuto vincere facendo un fallo sull’ultimo tiro, visto che le regole dell’Open, un misto Fiba-NBA, punivano i falli sul tiro da tre solo con due tiri liberi. E noi in quel momento eravamo avanti di tre. Andammo al supplementare, Daye e Cook erano veramente molto stanchi, per competere contro i Knicks avevamo dovuto spremere i giocatori principali, e finimmo stravolti. Però la nostra quasi impresa ebbe ripercussioni incredibili, quella fu la prima volta che una squadra europea portava ai supplementari una squadra NBA. Per qualche giorno ci sentimmo nel paese delle meraviglie».

In Italia invece faticate, sia in stagione regolare che nei playoff. Uscite 1-2 con Caserta nei quarti, e in Coppa Italia vi elimina Livorno.
«In campionato, a causa del grandissimo sforzo sul fronte europeo, con il roster che in effetti non era molto lungo, faticammo molto ed arrivammo alla fine con la lingua fuori. Nei playoff ci eliminò Caserta, che era quella fortissima di Charles Shackleford e Tellis Frank. Che poi avrebbe vinto il suo storico scudetto».

In Coppa dei Campioni arrivate alla Final Four, dove perdete 87-93 contro i futuri campioni della Jugoplastika. Un gran risultato, ma non per i vostri tifosi. Famoso il loro ringraziamento, col lancio di pomodori...
«Arrivare alla Final Four di Parigi era l’obiettivo principale della stagione. Un’impresa che sul momento non si colse nella sua grandezza, ma inquadrandola nella prospettiva del tempo, per Pesaro, aveva qualcosa di clamoroso. Davvero quel caso fu indicativo di come talvolta si perda la prospettiva delle cose. Un risultato che sarebbe stato da festeggiare, una piccola città italiana che andava in guerra contro le superpotenze del basket europeo e arrivava all’atto finale, era già una grande vittoria in sé. Invece qualcuno pensava che avremmo dovuto battere anche Spalato, con tutti i suoi campioni. Da un lato si alzò ancora l’asticella, dall’altro si creò una sensazione di frustrazione, fonte di potenziali tensioni all'interno della squadra e fuori, che infatti poi esplosero».

A Pesaro ha allenato Cook-Daye, una delle coppie americane più forti di sempre. E tanti altri campioni.
«Non ricordo una coppia di americani capace di inserirsi così in fretta in Europa, con un impatto così immediato, come Cook e Daye a Pesaro. Walter Magnifico, con la sua rapidità e il suo tocco, sarebbe perfettamente compatibile con gli standard di gioco attuali. Poi Ario Costa, un ragazzo prima ed un uomo poi con cui ho passato tanti anni a Brescia e a Pesaro, mi ha insegnato che lavoro, serietà, umiltà, sono determinanti anche per chi ha un talento superiore. Metto anche Domenico Zampolini e Andrea Gracis, dei quali si parla meno quando si ricorda l’epopea di quella Pesaro, tra quelli che avevano un ruolo fondamentale, complementari ai pilastri su cui era costruita la squadra. E in uscita dalla panchina in tanti, giovani o meno, hanno scritto la loro paginetta di storia pesarese: Renzo Vecchiato, Beppe Natali, Silvano Motta, Maurizio Ferro, Matteo Minelli, con i già citati Grattoni, Boni e Boesso. E ne dimentico sicuramente qualcuno. In quella Vuelle soprattutto ci fu un forte senso di famiglia attorno alla squadra, grazie ovviamente alla capacità di Valter Scavolini di creare quel clima. Una grande fortuna per me aver capito molto presto quanto sia importante la compattezza di un gruppo: se si è disposti a fare qualche rinuncia tutto si aggiusta, quando questi valori non ci sono è probabile che le pressioni esplodano e tutto si rompa».

Lei lascia Pesaro nel ’91, viene sostituito da Alberto Bucci. Non un bell’epilogo.
«Dopo quella stagione, quella della Final Four, ci fu una trattativa che ogni tanto ricordo ancora, sia con Valter Scavolini che con Warren Lagarie, il mio procuratore. Nella quale Warren fece una sparata tremenda nel chiedere il rinnovo contrattuale, una cifra altissima, che ovviamente spaventò Scavolini. Oltre a questo, l’epilogo in campionato con l’eliminazione ai quarti fece sì che il mio contratto non venisse rinnovato, e che io decidessi di andare a Desio. Direi tutto normale, anche se ogni tanto rimprovero ancora Warren perché fece quella sparata, tra l’altro senza nemmeno che ne fossi a conoscenza. A Pesaro arrivò Alberto Bucci che era un allenatore affermato, di grande carisma. E si arrivò a quell’epilogo, logico e comprensibile anche oggi con la prospettiva del tempo».

Trent’anni dopo, Pesaro cosa le fa tornare alla mente?
«Pesaro è stata una tappa fondamentale della mia carriera di allenatore, ma anche della mia vita. Sono stato fortunato ad essere entrato nella famiglia Scavolini e nella Vuelle. Non riesco ad immaginare il resto della mia carriera senza quei momenti fantastici, con le giovanili e con la prima squadra, il McDonald’s, la Final Four di Coppa dei Campioni, due scudetti, le finali europee. Io che arrivavo da Brescia e che avevo un’esperienza minima, posso solo considerarmi fortunato per aver vissuto tutto questo, essermi sentito con orgoglio parte di quella grande storia».

© Riproduzione Riservata
Giganti # 11 (maggio 2023) | Pagina 26-41

Stefano Benzoni

Ti potrebbero Interessare

Inizia a scrivere a premi Enter per cercare