La storia si fa qui. Dove nasce la grande Italia
In principio era l’Europa. La prima edizione dei campionati continentali maschili è del 1935, precede di un anno l’ingresso del basket alle Olimpiadi e di 15 la nascita dei mondiali. Proprio quella competizione è stata la scintilla del grande fuoco di passione, pubblico e spettacolo che ancora ci coinvolge, perché solo la nazionale è di tutti. Dal punto di vista tecnico, l’Europeo è la rassegna più difficile: i giochi olimpici, infatti, vedono la presenza geopolitica di diverse rappresentative che non valgono quelle di molti paesi del nostro continente, di fatto esclusi dalle formule di qualificazione.
Ve lo confermeranno Gamba e Recalcati, che hanno portato gli azzurri sul podio di entrambe le competizioni. Dunque, la storia si fa soprattutto qui e conoscerla fornisce delle chiavi di lettura suggestive. Anche quella lontana, delle edizioni degli anni 30 e 40, che può sembrare archeologia cestistica, va del tutto rivalutata. Le medaglie d’argento che l’Italia ha conquistato nel ’37 e ’46 rappresentano un quinto del totale di podi, 10 fin qui. E pesano tanto: in particolare il secondo posto del 1946 è di fatto il primo segno di affermazione internazionale dell’intero sport italiano dopo la catastrofe della guerra (insieme alla doppietta oro-argento di Consolini e Tosi agli Europei di atletica dello stesso anno), decenni prima della risalita del nostro sport nazionale, il calcio.
Per questo sono particolarmente grato, come semplice appassionato di questo sport, alla capacità di ricerca e scrittura degli autori, che nelle pagine di questo numero ci regalano una messe di preziosità e ricordi: dal primo capocannoniere italiano della manifestazione del 1935, Livio Franceschini, all’Mvp del ’39 vietato ai lunghi perché si potevano premiare solo giocatori sotto l’1.90, alla presenza, nella nazionale del ’46, di due giocatori che erano campioni anche di altri sport come Mario Cattarini (calcio) e Cesare Rubini (pallanuoto).
Gli Europei di basket sono la trama e l’ordito della generazione cui appartengo, e in particolare del mio percorso professionale: come giornalista mi sono occupato per decenni di questo straordinario sport. Ricordo molto bene la ricomparsa sul podio nel ’71 e ’75 della nazionale di Giancarlo Primo: ne eravamo esclusi ormai da un quarto di secolo e vi ritornavamo sull’onda di un rigore tattico, imperniato sulla difesa. Ma l’imprinting davvero indimenticabile sulla mia carriera sono stati i giorni gloriosi di Nantes 1983. Il primo oro, che sembrava semplicemente inarrivabile, non si può scordare. Anche perché ero presente in tribuna stampa, come cronista di quel trionfo. Incredibile battere la Jugoslavia, che quasi sempre ci aveva fatto piangere (e lo farà ancora con le sue eredi di Serbia, Croazia e Slovenia), vincere due volte contro la talentuosa Spagna, e superare in classifica lo squadrone dell’Unione Sovietica.
Ho vissuto la sintonia perfetta fra i giocatori in campo e noi sostenitori in tribuna. Non ho avuto il tempo di commuovermi mentre Caglieris faceva il Tardelli in campo alla sirena finale baciando il pallone, perché ero già impegnato a scrivere il servizio con i minuti contati. Ma una volta trasmesse quelle righe, mi sono unito alla gioia di tutti, come un tifoso comune: eravamo finalmente campioni di un grande sport, con una squadra di fenomeni. Anche noi italiani potevamo definirci Giganti, spazzando via tanti luoghi comuni. E il giorno dopo, passeggiando per Parigi, tappa di rientro in Italia, ero orgoglioso come non mai della banda-Meneghin che ci aveva fatto un regalo inaudito: quella fotografia di fronte all’Arco di Trionfo la conservo negli occhi e nel cuore.
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Giganti # 10 (agosto 2022) | Pagina 98