Jugobasket il vento dell’est

Jugobasket il vento dell’est

Un viaggio nella storia della pallacanestro Jugoslava. Tra Club e Nazionale, il racconto delle origini, l’espansione, lo sviluppo, le grandi vittorie fino allo spirare della Jugoslavia

Il basket jugoslavo ha raggiunto nella sua storia risultati tali da farlo quasi ammantare da un’aura di leggenda, di destino inevitabile che si compie.

In realtà questo sport era abbastanza sconosciuto nella Jugoslavia che uscì dalla Prima guerra mondiale come Stato che per precise ragioni geopolitiche era stato inventato a tavolino dalle potenze vincitrici della guerra stessa. In esso, infatti, si trovarono di colpo a convivere realtà totalmente diverse che avevano avuto una storia ognuna di esse indipendente dalle altre almeno per un millennio e che erano accomunate solamente dal fatto di parlare una lingua del ceppo degli Slavi del sud. L’unica delle regioni, non ancora Repubbliche, come furono chiamate dopo la seconda guerra, nelle quali il basket aveva un qualche sviluppo era la Slovenia, da sempre parte dell’Impero asburgico e che importò questo sport in modo abbastanza casuale, quando un dottorando in educazione fisica di Maribor andò nei primi anni del secolo a completare gli studi a Praga, si innamorò di questo sport strano originario dall’America e, una volta tornato in patria, lo fece diventare popolare presso i soci dei Sokol sloveni, le associazioni di educazione fisica che in tutto l’Impero coltivavano, con la scusa dello sport, i valori e la lingua nazionale (un po’ quello che fecero le varie Ginnastiche sia a Gorizia che a Trieste per promuovere l’amore verso l’Italia).

Per il resto della Jugoslavia la pallacanestro era pressoché sconosciuta. La storia riporta che a Belgrado nel 1923 un funzionario americano della Croce Rossa, tale William A. Wieland, presentò il basket ad una riunione dei Sokoli jugoslavi e dunque quello sarebbe stato l’inizio ufficiale della pratica del basket nel resto della Jugoslavia, quella di espressione linguistica serbo-croata. Fu comunque poca cosa, in quanto in quelle regioni l’unico sport conosciuto e popolare era chiaramente Sua Maestà il pallone di calcio, unico e vero sport di massa.

Durante la Seconda guerra mondiale successe una strana cosa a Belgrado. Sotto l’occupazione nazista la gioventù locale, in mancanza di meglio, cominciò a dedicarsi in massa al basket frequentando i campi all’aperto nella fortezza del Kalemegdan (ancora esistenti) e della collina di Topčider, così che a liberazione avvenuta il basket aveva preso definitivamente piede e cominciarono a crearsi varie società che lo praticavano. Ovviamente la più importante e potente era quella sostenuta dalle autorità militari, il Partizan, alla quale provò a creare una specie di opposizione un gruppetto di giovani amici, studenti universitari, che pensarono di fondare una nuova società, la Crvena Zvezda o Stella Rossa in italiano.

La data di fondazione della Crvena Zvezda nell’immediato dopoguerra è più o meno l’inizio ufficiale di una storia che poi portò il basket jugoslavo alle massime vette raggiungibili. Sarebbe ora il caso di dire chi fossero questi quattro moschettieri che cambiarono la storia. Il capo, quello che organizzava e pensava a tutto, si chiamava Nebojša Popović, poi allenatore della squadra che vinse i primi 10 titoli “veri” dal ’46 al ’55 e successivamente ancora nume tutelare di tutto il basket jugoslavo e giornalista a tempo perso, come sanno i vecchi lettori della Gazzetta. La mente occulta del gruppo, l’eminenza grigia a cui tutti si rivolgevano per avere un parere e un giudizio definitivo, si chiamava Radomir Šaper, poi praticamente a vita a capo della potentissima Commissione tecnica della FIBA. Il politico del gruppo, e lo era per esperienza diretta personale, in quanto solamente la giovane età gli permise di sfuggire al gulag per oppositori al regime al quale fu condannato il padre per attività sospette durante la guerra, e forse il miglior giocatore della squadra si chiamava Borislav Stanković, poi, dopo una grande carriera da allenatore, l’uomo più potente che la FIBA abbia mai avuto. E infine il tecnico, quello che del basket voleva sapere tutto, e prima o poi riusciva anche a farlo, eccellente giocatore malgrado il fisico mingherlino, tanto che il Partizan a un dato momento con un colpo di mano lo sottrasse alla Zvezda, che di nome faceva Aleksandar Nikolić, sì, proprio lui, il leggendario Professore. Come si può facilmente arguire in un tale consesso di menti superiori le idee che perseguivano non erano certamente scontate e non passava loro neanche per la mente di seguire esempi importati da altre realtà sociali e culturali. L’America era l’America, tutta un’altra struttura sociale e tutta un’altra mentalità, mentre la Jugoslavia era una cosa totalmente differente.

Fermo restando che l’America era all’epoca anni luce davanti a tutti nello sviluppo strettamente tecnico del gioco, per cui erano attentissimi a tutte le novità tecniche che arrivavano da oltre oceano, decisero che loro avrebbero giocato in modo differente, portando in primo piano le doti peculiari dei popoli balcanici, la creatività, la gioia per il gioco in se stesso, con tutto quello che ciò comporta, primo fra tutti l’irrefrenabile desiderio di quelle genti di essere più furbi e scaltri dell’avversario per batterlo più mentalmente che materialmente, insomma per finire la partita umiliandolo, facendogli fare cioè la più brutta figura possibile. Questo atteggiamento è stato la colonna portante dell’essenza stessa del basket jugoslavo ed è stato sempre presente in tutti gli anni nei quali la Jugoslavia rimase unita.

Ma dopo la guerra il basket non era più ormai solo Belgrado. Qualcosa cominciò a muoversi anche nella capitale croata Zagabria (soprattutto in campo femminile), ma nel frattempo, con Zara che era stata assegnata alla Jugoslavia, si fece vivo anche il movimento di quella città peculiare, nato durante la permanenza sotto l’Italia fra le due guerre. E in più in Slovenia si creò a Lubiana attorno ad un bravissimo giocatore e soprattutto straordinaria mente sia come coach che come politico, di nome Boris Kristančič, un importante movimento che si coagulò nell'AŠK (Club Accademico Sportivo) che in pochi anni divenne il club di basket Olimpija. Le capacità politiche del quartetto belgradese portarono la Jugoslavia a giocare addirittura nel 1950 il primo Mondiale di basket a Buenos Aires, ma i risultati furono tristi: ultimi senza vittorie, il che significava che non era ancora il tempo per allargarsi.

Come detto la Zvezda dominò il primo decennio del basket di campionato, ma già alla metà degli anni ’50 ci furono i primi segnali che il basket poteva diventare una cosa molto importante. E ciò grazie alla nascita, avvenuta praticamente nello stesso periodo, di tre grandissimi giocatori, inatteso regalo divino. Il primo era uno sloveno di Maribor, straordinario play di nome Ivo Daneu, che portò l’Olimpija ai massimi vertici a battagliare con un’altra squadra di Belgrado, l’OKK Beograd, che poteva schierare un giocatore brutto a vedersi quanto si vuole, ma totalmente immarcabile, un ragazzo della Vojvodina rosso di capelli di nome Radivoj Korač, mentre a Zara stava emergendo un peperino velocissimo e funambolico di nome Giuseppe Giergia, di nazionalità italiana, poi croatizzato in Josip Đerđa. E infatti Olimpija e OKK si alternarono in vetta al campionato per otto stagioni, dal ’57 al ’64, vincendo quattro titoli a testa, fino all’avvento di un altro momento chiave della storia del basket jugoslavo, l’apparizione nelle file dello Zadar di un ragazzo del vivaio di 17 anni, uno spilungone lunghissimo e magrissimo che giocava praticamente in tutti i ruoli, prediligendo addirittura quello di play, che di nome faceva Krešimir Ćosić.

Nel frattempo, grazie al drammatico elevamento del livello tecnico del basket jugoslavo, dovuto alla presenza catalizzatrice dei tre fenomeni sopra descritti, i successi della nazionale cominciarono ad arrivare: sesta alle Olimpiadi di Roma, addirittura argento europeo dietro agli imbattibili sovietici a Belgrado l’anno dopo in un’edizione degli Europei che fu seguitissima da un pubblico sempre più entusiasta e significò la definitiva esplosione del fenomeno basket nell’immaginazione collettiva di tutti i popoli jugoslavi. L’avvento di un lungo capace di fare di tutto, e tutto benissimo, come Ćosić fu l’ultimo tassello che mancava per far fare al basket jugoslavo l’ultimo decisivo salto di qualità.

La Jugoslavia era un Paese che sulla fascia dei monti dinarici che scorrono paralleli alla costa adriatica poteva contare su una popolazione dalla statura nettamente superiore alla media mondiale, ma che stranamente fino a quel momento era stata sfruttata molto poco per gli scopi del basket, che pure sarebbe a tutti gli effetti uno sport per gente la più alta possibile. Proprio per la concezione che i balcanici hanno dello sport come astuzia e prevaricazione succedeva infatti che la gente andava a vedere le partite per assistere ai funambolismi dei piccoli e, un po’ nello stile della corrida, a vedere come prendevano in giro i lunghi imbranati che pure erano necessari, nella quantità più limitata possibile, per sopperire alla necessità di appropriarsi della palla dopo un rimbalzo. Ragion per cui era loro esplicitamente proibito di prendere qualsiasi iniziativa. Una volta recuperato il pallone il loro compito era quello di recapitarlo il prima possibile al piccoletto di turno che poi ci pensava lui a far divertire la gente.

Quando apparve un lungo che giocava a basket come i piccoletti pian piano ci si cominciò a rendere conto che tutto sommato anche i lunghi, volendo, potevano essere utili per lo spettacolo, ragion per cui cambiò anche il modo stesso di concepire il basket e i lunghi cominciarono ad essere cercati e istruiti come veri giocatori di basket, dando loro anche precise responsabilità in attacco. Nel contempo i lunghi stessi cominciarono ad allenarsi duramente sui fondamentali per poter essere come il loro idolo zaratino ed essere dunque accettati dalla opinione pubblica come “veri” giocatori di basket.

A proposito va immediatamente sfatata la leggenda per cui i cestisti jugoslavi erano tutto talento e sregolatezza. Al contrario, proprio la consapevolezza che essere presi in giro pubblicamente in partita era l’onta più atroce che potessero subire, ledendo la loro più profonda dignità di esseri umani, innescava in loro una motivazione formidabile che nulla aveva a che fare con la voglia di celebrità o soldi. Tutti i giocatori di vertice che la Jugoslavia abbia mai prodotto erano veri e propri stakanovisti, capaci di passare ore e ore al campetto o in palestra a provare e riprovare movimenti sempre più complicati, magari inventati da loro stessi, a tirare a canestro per ore per perfezionare la tecnica e a eseguire fondamentali fino allo sfinimento. Normalmente un giocatore jugoslavo di vertice di tutte le epoche passava almeno 6-7 ore al giorno in palestra a giocare o a allenarsi. Il tutto condito da un’attenzione alla preparazione fisica più che metodica, maniacale quasi.

L’unica motivazione di tipo “esterno” che si potrebbe trovare era quella legata alla loro convinzione di essere comunque i più forti che ci fossero, ma che venendo dalla non proprio ricca Jugoslavia, Paese fra l’altro di tipo socialista nel quale il consumismo era reputato una pratica decadente del mondo corrotto, apparivano in giro come pezzenti mal vestiti, un’accozzaglia di cugini di campagna, e la cosa dava loro fastidio quando affrontavano le opulente società dell’Europa occidentale che secondo loro schieravano giocatori ben più scarsi, ma che apparivano molto belli e eleganti. Per non dire dei faraonici staff che li seguivano e coccolavano dappertutto, mentre loro fortuna se avevano con sé un medico, del trainer e fisioterapista non si parlava neppure. Per cui quando potevano batterli godevano particolarmente. Insomma contro polacchi, bulgari e cecoslovacchi, compagni di sventura, si poteva anche perdere, contro italiani, francesi e spagnoli invece mai e alla fine prenderli in giro era la soddisfazione massima che potevano provare.

La seconda metà degli anni ’60 fu dunque l’inizio del boom che proiettò la Jugoslavia ad essere una superpotenza cestistica. Lo Zadar con Ćosić divenne subito competitivo e vinse il suo primo titolo proprio nel ’65 grazie al suo 17-enne fenomeno e al fatto che poteva giocare nel suo bunker all’aperto del mitico campo delle Jazine. L’unico avversario per il momento rimaneva l’Olimpija, che infatti vinse l’anno successivo, ma poi lo Zadar ritornò a vincere altri due titoli di fila, malgrado il fatto che la Federazione avesse finalmente deciso che si doveva giocare solo al coperto e aveva perciò spostato la stagione dall’estate all’inverno con ciò adeguandosi a quanto facevano nei Paesi più evoluti.

Nel frattempo, però bollivano in pentola grandi novità. C’era la leggendaria Zvezda che aveva finalmente trovato una generazione di eccellenti giovani, un play sbarazzino e dotato di debordante professionalità di nome Zoran Slavnić, una guardia di due metri dall’intelligenza spaziale, poi diventato un’autorità internazionale nel campo della psicologia, di nome Ljubodrag “Duci« Simonović, e un'ala fra piccola e forte dalla forza fisica incontenibile, immarcabile sotto canestro di nome Dragan Kapičić. E infatti subito dopo che la nazionale jugoslava ottenne il suo più grosso successo internazionale fino a quel momento, il bellissimo argento olimpico di Città del Messico dopo aver battuto i sovietici in semifinale, il campionato successivo fu vinto proprio dalla Zvezda (che poi rivinse ancora quattro anni dopo, suo ultimo titolo della storia).

A Belgrado però non c’era solo la Zvezda, ma anche il Partizan, che fu preso in mano dal giovane e ambizioso coach della Nazionale Ranko Žeravica, che cominciò a prendere giovani da tutte le parti per ricostruire la squadra. Ma soprattutto successe che nella città dalmata di Spalato, roccaforte calcistica votata allo storico Hajduk, ma città cruciale per le sorti del basket essendo il naturale bacino di raccolta dei giovani lunghi dinarici dell’entroterra, tre fratelli entusiasti del basket con il mediano, di nome Rato Tvrdić, nettamente il più forte di tutti come giocatore, trovassero nel loro KK Split la sponda di un giovane lunghissimo e tagliato con l’accetta che da un’isola sperduta era venuto a giocare a basket, un ragazzo di grande intelligenza e bravura di nome Petar Skansi, che fu decisivo per far fare all’oscuro club un drammatico salto di qualità che fu rafforzato dall’ingaggio, per una muta di palloni e un’iscrizione gratis all’Università, dalla seconda squadra di Zagabria, la Mladost, di un’interessantissima ala piccola dal gran fisico e dal tiro che spaccava di nome Damir Šolman. Una volta che la squadra cominciò a fare risultati ricevette da una locale fabbrica la sponsorizzazione che le cambiò il nome in Jugoplastika, nome diventato poi una vera e propria leggenda nella Jugoslavia cestistica. E alla fine, nel 1971, arrivò anche la consacrazione definitiva con la conquista del primo titolo in campionato.

Grazie all’apparizione nella Lokomotiva di Zagabria, la prima squadra del capoluogo croato Zagabria, di una giovane guardia dal fisico compatto e potente, dai movimenti felpati, ma inarrestabili, e dal tiro strano, ma terribilmente efficace, di nome Nikola Plećaš, la nazionale diventò estremamente competitiva: agli Europei del '69 in Italia conquistò l'argento dopo aver battuto nel girone eliminatorio anche i sovietici, ma soprattutto riuscì nell'impresa, tanto politica, essendo riuscita ad organizzarlo in casa, prima volta che i Mondiali si disputassero fuori dal Sudamerica, che sportiva, di laurearsi nel ’70 a Lubiana addirittura Campione del mondo FIBA.

Nel frattempo Ćosić era andato in America a studiare e giocare, primo europeo della storia a farlo, diventando una stella anche lì e un esempio fulgido da seguire e ammirare in patria, e dunque il basket visse un momento di straordinario boom che fece emergere tutta una nuova generazione di fenomeni: in serie B giocavano e segnavano caterve di canestri due 17-enni, uno di Čačak di nome Dragan Kićanović, e uno addirittura di Tuzla in Bosnia, Repubblica fino ad allora vergine di basket, di nome Mirza Delibašić, in Erzegovina nella Lokomotiva di Mostar si faceva largo un giovane dal fisico strabordante e dal talento sopraffino di nome Dražen Dalipagić, nella Jugoplastika si stava facendo le ossa un giovane centro di nome Željko Jerkov, insomma il futuro del basket divenne fulgido.

La cosa più importante fu però il fatto che, grazie a questa straordinaria nuova popolarità, il basket divenne, per così dire, sport di stato, cosa che era stato fino a quel momento solo il calcio. Per il regime che c’era diventare sport “ufficiale”, supportato dalle strutture socio-economiche, tutte ovviamente in mano allo Stato, sia federale che repubblicano, significava, per chi lo praticava al vertice, poter accedere a tutta una serie di privilegi che erano il massimo che in quel tipo di società si potessero ottenere. Voleva poter dire avere un appartamento per sé e la famiglia, un posto fisso in qualche ditta statale con relativa paga, anche se nella ditta stessa non si metteva mai piede, e un’automobile. Il resto dei servizi, istruzione e sanità soprattutto, era comunque, come in ogni società socialista, gratuito. In più il costo della vita era molto basso, soprattutto per gente che, grazie a tante trasferte all’estero, poteva ogni tanto incamerare tramite diarie qualche soldo in valuta estera pregiata (marchi, dollari).

Ovviamente ogni accenno a introiti paralleli dovuti allo spicciolo contrabbando di beni di consumo occidentali sarebbe impietoso, per cui è meglio sorvolare. E tutto ciò facendo nientemeno che quello che si era fatto fin da piccoli per divertimento e gioco. E, corona di tutto, lo status sociale dei campioni del basket divenne pari a quello dei migliori calciatori, per cui furono loro spalancate tutte le porte. Parlare dunque di prigione dorata per gente che fino ai 30 anni, poi ridotti a 27, una volta finita la carriera produttiva, secondo gli standard dell’epoca, non poteva emigrare per giocare all’estero, è del tutto fuori luogo.

In realtà a loro, per la società nella quale vivevano, non mancava assolutamente nulla e a nessuno passava neppure per l’anticamera del cervello di provare strane fughe all’estero per guadagnare la montagna di soldi che avrebbero potuto guadagnare nelle opulente squadre occidentali. Per farne che? Stavano benissimo a casa, erano riveriti e rispettati, erano eroi sportivi e infatti tutti, ma proprio tutti senza eccezione, ancora oggi ricordano con struggente nostalgia quei tempi. Poi chiaramente si poteva andare a prendere qualche soldo in più per garantirsi un’esistenza più tranquilla, ma quello era un di più da mettere in tasca a fine carriera, e non certamente l’obiettivo primario.

Tanto più che per la loro mentalità andare all’estero a giocare con gente che non condivideva la loro mentalità, dover seguire consigli di coach che predicavano a loro avviso poco più che scemenze americanoidi senza senso, mentre l’essenza del basket era tutt’altra cosa, in definitiva doversi snaturare per poter riscuotere l’assegno a fine mese era psicologicamente una tortura, frustrante e castrante, da sopportare solo ed esclusivamente perché a casa si portavano (tanti) soldi.

È solo ovvio che con questo tipo di mentalità acquisita quasi geneticamente, quella cioè di essere gli unici che giocassero il basket “vero”, quello che per l’essenza stessa del gioco andasse giocato, i giocatori jugoslavi sono stati fermamente convinti che il loro campionato fosse assolutamente il più bello al mondo, e, America esclusa ovviamente, anche il più forte.

All’inizio ovviamente si trattava di una convinzione abbastanza megalomane, ma verso la fine degli anni ’70, dopo che la generazione d’oro di quegli anni aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, tre Europei, un altro Mondiale e poi infine anche il titolo olimpico a Mosca, in effetti, per quanto per esempio in Italia non se ne fosse ancora accorto nessuno, il campionato nazionale jugoslavo diventò sul serio il miglior campionato nazionale europeo. E tutto ciò con giocatori fatti in casa. La concorrenza interna era strepitosa: c’erano le grandi, il Partizan di Kićanović e Dalipagić, la Jugoplastika di Tvrdić, Šolman e Jerkov, l’emergente Bosna di Sarajevo, creato dal nulla dalle idee visionarie di un giovane coach di nome Bogdan Tanjević, imperniato sul genio di Delibašić che armava il braccio del tiratore Varajić e del giovane centro Radovanović, ma dietro c’era tutta una schiera di formazioni agguerrite in piena crescita. A Zagabria il coach-avvocato Mirko Novosel, abbandonata la guida della nazionale, rivoltò la storica Lokomotiva come un calzino.

Mise in piedi dapprima una solida struttura economica, basata sul consorzio croato delle ditte alimentari che di nome faceva Cibona, e grazie a ciò poté cominciare una capillare campagna di reclutamento di giovani prospetti croati, portando infine a Zagabria il miglior junior croato, un ragazzo di Sebenico di nome Aca Petrović, da Ragusa (in croato Dubrovnik) portò il centro Andro Knego, e infine fece fare il salto di società cittadina, dalla Mladost- Industromontaža al Cibona, alla giovanissima ala tuttofare di straordinaria intelligenza cestistica Mihovil Nakić. E il Cibona diventò subito un fattore e un importante laboratorio cestistico in costante crescita.

Alla storica Zvezda era arrivato da mentore l’ex CT della nazionale campione del mondo Ranko Žeravica che tentò, peraltro con meno successo, di fare quello che stava facendo Novosel a Zagabria, c’erano sempre molto competitivi lo Zadar e l’Olimpija, insomma di carne da cannone in campionato non c’era neppure l’ombra. Anzi, andare a giocare nelle tane del Borac a Čačak o del Rabotnički a Skopje era sempre e comunque un incubo per tutti.

Il fatto che il campionato jugoslavo era diventato il campionato faro d’Europa fu certificato dapprima dal fatto che le squadre jugoslave cominciarono a dominare la Coppa Korač con la fantastica finale del ’78 a Banja Luka fra Bosna e Partizan, una delle più belle partite che il sottoscritto abbia mai visto nella sua carriera, ma soprattutto dalla storica vittoria dello stesso Bosna l’anno dopo nella finale della Coppa Campioni contro Varese, prima vittoria, ma come si vide poi, certamente non l’ultima, di una squadra jugoslava, formata tutta da giocatori fatti in casa, nella massima Coppa continentale.

E del resto in quegli anni il campionato fu ogni anno combattuto allo spasimo ed incerto fino alla fine. Dopo le vittorie nel ’74 e nel ’75 dello Zadar di Ćosić, nel frattempo ritornato dall’America dopo i quattro anni nello Utah, nel ’76 fu la volta del Partizan di Kića e Praja Dalipagić a vincere il primo titolo della sua storia dopo un’epica battaglia contro la Jugoplastika, che si rifece l’anno dopo grazie ad un canestro all’ultimo secondo dalla grande distanza di Šolman nella partita decisiva contro il Bosna, il quale Bosna poi l’anno dopo fu ripagato dalla sua prima vittoria in campionato solo quattro giorni dopo la sconfitta al supplementare contro il Partizan nella finale summenzionata battendo proprio il Partizan a casa sua nella partita decisiva. Il braccio di ferro fra Bosna e Partizan continuò anche nei due anni successivi con le due squadre che si alternarono nella conquista del titolo, ma nel frattempo si avvertiva anche netta la sensazione che un’era stesse finendo.

Tutti i grandi giocatori della prima generazione maturarono l’età giusta per andare a monetizzare le proprie capacità all’estero, tutti tranne il solito Ćosić che dopo una fulgida parentesi a Bologna tornò in Jugoslavia col compito preciso di far vincere finalmente un campionato anche alla maggior squadra di Zagabria accasandosi alla corte del Cibona. E infatti, dopo che nell’81 un inedito Partizan che schierava due grandi cavalli di ritorno momentaneo dall’estero quali Slavnić e Dalipagić dominò il campionato, finalmente nell'82 il Cibona, grazie a Ćosić e a un gancio sinistro di Nakić all'ultimo secondo della partita decisiva dei play-off contro la Zvezda, portò finalmente la stella, come in Jugoslavia chiamavano quello che noi chiamiamo scudetto, a Zagabria.

Con l'esodo dei campioni che lasciarono dietro a sé terra bruciata il livello del campionato scese drasticamente. L'unico lampo nel buio che tenne vivo l'interesse del pubblico fu l'apparizione a Sebenico nel locale Šibenka del fratellino piccolo della stella del Cibona Aca Petrović, che di nome faceva Dražen, e che fece subito, già da quando esordì a 16 anni in prima squadra sotto la sapiente mano di Slavnić, riciclatosi intanto quale allenatore-giocatore, capire che si trattava di un grandissimo fuoriclasse. E infatti, malgrado la giovanissima età, il futuro Mozart dei canestri dette il tono a quanto successe nel basket jugoslavo negli anni successivi.

Dapprima nell' '82 portò il suo Šibenka alla finale di Coppa Korač, persa a Padova contro il Limoges, e l’anno dopo addirittura alla finale per il titolo, perso a tavolino dopo che la Federazione cancellò con un inaudito arbitrio i tiri liberi, peraltro concessi del tutto ingiustamente, che a tempo scaduto avevano dato la vittoria nella partita decisiva contro il Bosna. Inutile dire chi li avesse segnati. Poi, dopo un anno passato a fare il militare, nel trasferimento più chiacchierato della storia del basket jugoslavo Dražen passò da Sebenico a Zagabria a rafforzare il Cibona. I risultati si videro subito: due titoli di fila, ma soprattutto due Coppe Campioni di fila nell’85 e ’86, vinte contro il Real Madrid e lo Žalgiris. Ma proprio dopo questa vittoria arrivò la cocente sconfitta nella finale per il titolo, causa presupponenza pura e semplice, contro il molto più debole Zadar che nella gara decisiva vide a Zagabria tutte le apparizioni celesti disponibili segnando anche dagli spogliatoi e imponendosi al supplementare. Sconfitta che più o meno significò l’inizio della fine dell’epopea del Cibona.

Intanto però si stava completando il cambio generazionale e all'orizzonte si profilavano i protagonisti della seconda e ultima generazione d'oro del basket jugoslavo. Nella profonda Serbia, a Kraljevo, faceva mirabilie un ragazzo di 16 anni di nome Vlade Divac, 2 metri e 12, ma fisico da normolineo, mani fatate e comprensione profonda del basket, nel Budućnost di Titograd, ora Podgorica, sì, intanto anche il Montenegro era arrivato a competere ai massimi livelli, assieme alla stella della squadra, uno studente di giurisprudenza di nome Dušan, per tutti Duško, Ivanović, si stava imponendo agli occhi di tutti un ragazzo di 2 e 08 dalle orecchie a sventola, dal tiro orripilante che però entrava spesso e volentieri, ma soprattutto agile e veloce come come una scheggia, di nome Žarko Paspalj, a Lubiana nell'Olimpija c'era un playmaker biondino che aveva tutto, visione, tiro, fisico, malgrado l'apparenza magrolina, grandissimo difensore di nome Jure Zdovc, ma alla fine il grosso della storia avveniva altrove.

Nella storica Jugoplastika a Spalato stava infatti avvenendo una specie di miracolo. Non contenti di aver scovato una forte guardia tiratrice, Velimir Perasović, e un centro abbastanza sgraziato, ma solido come una roccia e giocatore sobrio, senza fronzoli e utilissimo di nome Goran Sobin, dal vivaio arrivarono due ragazzi veramente magici. Uno era un ex-giocatore di tennis tavolo, lunghissimo, magrissimo e mancino, scoperto per caso sulla spiaggia mentre giocava con i coetanei, che, una volta dedicatosi al basket, rivelò incredibili doti di comprensione del gioco, di lettura, ma soprattutto di straordinaria duttilità, potendo giocare esattamente in tutti ruoli possibili, di nome Toni Kukoč, l’altro era un lungo di 2 e 11 incline un po’ alla pinguedine, ragione per la quale la madre lo aveva mandato a giocare a basket, ma malgrado ciò estremamente coordinato, con grandi mani e anche lui grandissima comprensione del gioco, di nome Dino Rađa.

Questi nuovi protagonisti salirono subito alla ribalta. Il Partizan scritturò, è il caso di dirlo, sia Divac che Paspalj che si aggiunsero ai due gioielli del vivaio Đorđević e il giovanissimo Danilović, la Jugoplastika fece maturare i suoi diademi, per cui gli ultimi anni della Jugoslavia unita furono caratterizzati dalla lotta senza quartiere fra queste due squadre. Dopo un’iniziale prevalenza del Partizan, che vinse il titolo nell’ ’87, arrivando l’anno dopo alla Final Four di Coppa Campioni facendosi battere sciaguratamente in semifinale dal più debole Maccabi, salì alla ribalta la Jugoplastika, che intanto aveva preso Ivanović dal Budućnost e ingaggiato dalla Serie B in Bosnia un bravissimo centro di nome Zoran Savić, che fece filotto: quattro titoli di fila, ma soprattutto tre Coppe Campioni di fila, l’ultima addirittura a Jugoslavia già disgregata sotto il nome di Pop 84.

Il basket jugoslavo finì ovviamente quando finì la Jugoslavia, ma lo fece col botto: argento alle Olimpiadi di Seul con una squadra dall’età media di 21 anni e mezzo, campione Europeo nell’89 e ’91, campione Mondiale nel ’90. Il tutto sciorinando un gioco spumeggiante, veloce, creativo, in definitiva magnifico che stregò tutti, immortalato nel famoso, per quanto edulcorato, documentario “Once Brothers”. Però intanto era finita la Jugoslavia.

E poi, il fatidico 7 di giugno del ’93, morì Dražen nel tragico incidente automobilistico di Monaco. E con lui finì un’epoca che rimarrà vivida nel ricordo di chi l’ha vissuta. Come il sottoscritto che non potrà mai abbastanza ringraziare il destino per avergliela fatta vivere nella sua interezza e imperitura gloria.

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Superbasket # 56 (marzo-aprile 2022) | Pagina 82-98

Sergio Tavcar

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