“Bologna e lui: vi racconto Bologna e lui: vi racconto la storia di un amore. Ricambiato a metà"
Intervista a Walter Fuochi, prestigiosa firma di “Repubblica”, che ha seguito la carriera di Messina fi n dal suo approdo alla Virtus. Le confidenze mai tradite, i retroscena, le amicizie con i bolognesi celebri, i momenti di sconforto, l’implacabile divisione col mondo Fortitudo. “E quella prima volta di Ginobili un po’ così…”
Una città divisa. La corsa al riarmo. Un clima quasi insostenibile. No, non siamo a Berlino negli anni della Guerra Fredda, del Muro, dei conflitti, ma a Bologna a cavallo tra gli anni '90 e i duemila. La tensione è il risultato di una rivalità sportiva fra Virtus e Fortitudo, le due squadre storiche della città. In quel periodo si affermano come superpotenze del basket europeo: una sfida continua per ingaggiare i campioni più affermati, i migliori giovani, gli italiani più talentuosi.
“Dieci anni irripetibili: in quel periodo Bologna è stata la capitale del basket, non solo italiano ma anche europeo. In città, tra Virtus e Fortitudo, tutti i giovedì sera sfilavano le grandi d’Europa: Real Madrid, Barcellona, Panatinaikos e via così. E la maggior parte delle volte si vinceva. Ettore Messina è stato un protagonista di questa incredibile parentesi, che è entrata nella storia della città, non solo dello sport”. Così racconta Walter Fuochi, 63 anni, giornalista di Repubblica.
La sua carriera è andata di pari passo con quella di coach Messina: prima professionalmente poi come amico, seguirà tutta l’ascesa virtussina del coach, rimanendo un punto di riferimento anche quando arriverà il momento di dire addio a Basket City. Un testimone attento e competente che, da una prospettiva privilegiata, ci racconterà come e perché metà città si innamorò di un allenatore di pallacanestro.
Partiamo dal rapporto Messina-Bologna. L’allora giovanissimo tecnico arriva nel 1983, a 24 anni. Lei quando lo notò?
“Abbastanza presto, all’epoca non lavoravo ancora per Repubblica, ma seguivo le partite dei campionati giovanili. Lui fu preso per occuparsi del vivaio e per fare il vice della prima squadra; le sue quotazioni erano già alte. Dan Peterson lo definì poi ‘il numero uno dei numeri due’. Proprio quell’estate cambiò anche l’allenatore della serie A: il presidente, l’avvocato Gigi Porelli, scelse il giovane Alberto Bucci, da Fabriano, alla sua prima esperienza in una grande squadra. Così Messina iniziò come suo vice. Partenza positiva, come spesso gli è successo in carriera, in questo caso da attore non protagonista: nel 1984 la Virtus vinse lo scudetto della stella. Primo anno, primo successo. Ettore era venuto con l’idea di fare il professionista del basket. A Bologna fu accolto in una struttura già molto professionale e all’avanguardia, che consentiva di fare quella scelta di vita già negli anni '80. Le giovanili erano una fabbrica di scudetti: c’era la foresteria. La società prendeva e cresceva ragazzi da fuori. Ricoprire quell’incarico significava vivere di basket, a maggior ragione per Messina che faceva anche l’assistente in serie A”.
Che considerazione aveva di Messina come allenatore delle giovanili?
“Era avanti rispetto agli altri. Allenava probabilmente una tra le squadre più forti in Italia e si scontrava con altre grandi formazioni con altrettanto blasone: Pesaro, Roma, Milano, Cantù. Al tempo c’erano i veri vivai, dove si producevano importanti giocatori per una Nazionale che vinceva. Lo scudetto juniores contava, la concorrenza era agguerrita. Lui vinse quattro titoli giovanili. Ricordo di essere stato testimone di quello di Roseto. A quei tempi risale anche la sua grande amicizia con Giordano Consolini, il numero due del vivaio. 37 anni dopo lo ritroveremo a Tel Aviv e a Istanbul a fare il vice al Messina-bis in Nazionale. Ettore è una persona di affetti e contatti duraturi. Gli amici e i collaboratori di trent’anni fa sono quelli di adesso. Roberto Brunamonti, il suo storico capitano, è stato team manager della sua ultima Nazionale. Legami riaffioranti. Che Ettore fosse speciale era nell’aria, ma fece comunque un cursus honorum molto lungo: fu vice di Alberto Bucci, Sandro Gamba, Cosic e Bob Hill. Così quando si concretizzò l’ipotesi che Bob Hill potesse essere perso, il pensiero fu: ‘Se non torna abbiamo Messina’. Aveva già fatto sei anni da vice, era pronto”.
E come stava passando l’estate 1989 Messina?
“Ricevette una proposta di allenare Livorno, che aveva appena perso lo scudetto con Milano all’ultimo secondo. Bucci si era già accordato per andare a Verona, in A2, una squadra con grandi progetti. In quei giorni ci vedemmo a pranzo e mi chiese: ‘Ho un’offerta da Livorno, cosa faresti?’ Io risposi che avrei accettato: era pur sempre la squadra finalista per lo scudetto, la sua prima grande occasione. ‘Io invece non ci andrò’, mi rispose. Sapeva già del piano della Virtus di promuoverlo? Preferiva continuare ancora come vice e con i suoi ragazzi? Non lo so, ma in ogni caso aspettò la Virtus. E da lì a un mese il nuovo presidente Paolo Francia lo nominò capo allenatore. Era il 1989, aveva 30 anni da compiere. Era il secondo più giovane dopo Sergio Scariolo, alla Scavolini. L’ambiente reagì bene. Avevano tutti capito che c’era un giovane allenatore in casa, pronto. Del resto, di nuovo fece centro al primo colpo: vinse coppa Italia e coppa delle Coppe”.
Il suo rapporto umano con lui come si è sviluppato nel corso degli anni?
“Col tempo si è stabilita un’intesa solida. Credo apprezzasse il canale che aveva con me: ciò che veniva pubblicato era quello che pensava. Spesso le interviste sono frutto di sintesi, quindi di comprensione. Poi c’era tutta una parte di fuori onda, che non usciva, ma restava a far parte del mio bagaglio di conoscenze. Un sapere da usare con garbo e discrezione, che evidentemente mi erano riconosciuti. Ma i segreti veri non mi sono mai stati rivelati. Le grandi decisione le ha sempre condivise con la famiglia”.
Come viveva coach Messina la città di Bologna?
“In maniera molto partecipe. Ha molte amicizie in città, trasversali, non solo di basket. Conosce bene Prodi, Dionigi, l’ex rettore, conosceva Lucio Dalla. Il basket gli ha favorito una serie di incontri interessanti. Era ed è complice di tutta quella parte della città che si muove nel mondo delle arti e della cultura. Quando tornò, dopo quattro anni alla guida della Nazionale, si era consolidato a livello professionale, con un percorso ascensionale cominciato con il fallimento del 1993 e finito con l’argento europeo del 1997 perdendo solo una partita. Era ormai un allenatore affermato a livello europeo: rappresentava la speranza della Virtus per tornare a vincere. Accoglienza trionfale anche perché era tornato con Danilovic. Dopo una stagione 96/97 molto deludente, fu il riarmo”.
Com’era il rapporto con la sponda Fortitudo?
“Pessimo. Una cosa che Ettore pativa a Bologna era proprio la divisione della città. Percepiva il rancore di una parte dei bolognesi, che si manifestava anche nella vita di tutti i giorni. Ha spesso ribadito di non tollerare che anche fuori dal palazzetto continuasse ad essere percepito come il nemico. Messina era considerato invincibile. Attila per gli avversari, un dio per i suoi: ciò che toccava diventava oro. Appena tornato riuscì a fare la doppietta scudetto-Eurolega, quando la Virtus non l’aveva mai vinta. Era intoccabile. Il 1998 fu l’anno del Big Bang. La Fortitudo prese dieci giocatori nuovi, la Virtus sette: erano squadre stellari e fu l’anno dei dieci derby. L’ostilità, il rancore, la rivalità diventarono sempre più percepibili. Le parole andavano in libertà, c’era un clima da guelfi e ghibellini, molto pesante. Ma Ettore, come detto, tornò e vinse di nuovo al primo colpo. Aveva una squadra di cui si fidava molto. Mi disse che con loro sarebbe andato nella giungla. C’erano Danilovic,
Rigaudeau, Savic. A marzo la Virtus vinse i derby dei quarti di Eurolega, con tutta la coda della celebre rissa. Poi a Barcellona conquistò l’Eurolega, superando in finale l’AEK Atene. Messina chiuse la partita dicendo: ‘La corsa alla luna è conclusa. Lassù sventola la bandiera con la V. Questa è una storia finita’. Uno schiaffo per chi in alto non ci era arrivato, cioè la Fortitudo. La finale scudetto la vince poi nel modo che tutti ricordano: quel famigerato tiro da 4 punti di Sasha Danilovic, con il fallo di Dominique Wilkins. È stata una serie irripetibile: tutte le partite si decisero per pochi punti. La Fortitudo buttò via il titolo”.
Messina ha dichiarato che Danilovic è stato il suo giocatore più importante. È così secondo lei?
“Sì, anche se lo è stato in realtà di tutti i suoi allenatori (risata). Avevano grande rispetto l’un dell’altro: Danilovic poteva dire la parola in più e Messina sapeva cosa chiedergli. Era un campione consapevole dei suoi mezzi, molto protettivo con i compagni, li difendeva anche quando sbagliavano. Ricordo che scacciò tutte le perplessità quando si sbloccò con un canestro decisivo allo scadere contro Torino. Da lì in avanti decollò: concluse in maniera trionfale. Anche se alla fine il Danilovic onnipotente, quello dei 30 punti a partita, l’ha avuto Bucci, con il quale vinse poi altri due scudetti”.
Dopo un 1998 magico, arrivarono due stagioni senza vittorie.
“Il campionato 98/99 non andò male, giocarono pur sempre la finale di Eurolega. E di nuovo ci arrivarono battendo la Fortitudo; qui bastava quello. Fu l’anno della famosa Final Four di Monaco, dove Bologna si presentò con entrambe le sue squadre. Ci fu il derby in semifinale, e la Virtus, che durante la stagione non aveva mai vinto, ci riuscì al sesto tentativo. ‘Un derby così prosciuga’, disse Messina. Perdettero poi in finale contro lo Zalgiris: i lituani stavano giocando troppo bene, in quel momento erano imbattibili. In campionato la Virtus fu sconfitta da Varese in semifinale, che poi vinse lo scudetto. Insomma si trovarono contro due squadre nel loro momento magico, non fu vissuta come una stagione negativa”.
Il campionato 1999/2000 fu sottotono, e quella del 2000 fu un’altra estate di fuoco. Cosa successe?
“In quei mesi cambiò tutto: il nuovo proprietario era Marco Madrigali e con lui nacque la Virtus di Ginobili, Jaric, Griffith e compagnia. Danilovic, tornato da una disastrosa Olimpiade, decise di smettere dopo un solo allenamento. Messina l’accettò come una fine ineluttabile. Sasha capì che non poteva fare il padre nobile di una squadra rifatta da capo, che aveva energie nuove. Eravamo al secondo riarmo nel giro di pochi anni e la sfida era iniziata dal mercato: ci fu un’asta per Andrea Meneghin, Messina lo voleva a tutti i costi, ma alla fine lui andò alla Fortitudo. Il ripiego si chiamava Manu Ginobili. Manu era già stato opzionato da Cazzola alla fine della stagione. Fece un’annata super, trascinò Reggio Calabria a gara 5 contro la stessa Virtus, che impaurì a morte. Però l’opzione venne lasciata scadere: la convinzione era di avere già in pugno Meneghin. Quando la guardia di Varese si accordò con la Fortitudo, la Virtus dovette rincorrere Manu prima che si accasasse con il Barcellona: riuscirono a riprenderlo”.
E 20 anni dopo sono ancora insieme...
“Già! E pensare che alla sua prima partita di Eurolega con la Virtus, persa di uno contro l’AEK, Manu fece un punto. Dopo la conferenza stampa, nei corridoi di Oaka, parlai con Messina. Gli dissi che non era andata poi male tutto sommato: in rimonta da -15, sbagliando il tiro della vittoria, in casa della squadra più forte del girone. Lui mi rispose: ‘Ma se questo qua è il nostro miglior giocatore e fa un punto, dove andiamo?’. Ginobili ne fece venti alla seconda. Era un giocatore senza memoria: poteva fare virgola la domenica e 20 il mercoledì, giocando la partita perfetta. Era guidato da istinto, energia e fiducia”.
Si parla spesso della ruvidità di Messina con i suoi giocatori. Lei cosa ne pensa?
“Lui è un professionista di alto livello e pretende professionismo da tutti, giornalisti compresi. Se gli viene posta una domanda che contiene un dato di fatto sbagliato, lui se ne accorge. Siamo al massimo livello e il giocatore deve fare quello per cui è pagato: non è ammessa l’ignoranza. Dunque, alla fine è un’esigenza. Messina pretende molto dagli altri, ma sapendo di dare molto: è preparato e preciso. Ma era il primo a riconoscere quando capitava che esagerasse. La cosa che lo faceva più infuriare era la spifferata dallo spogliatoio”.
Tornando alla Virtus. Nel 2002 ci fu il farsesco esonero, poi ritrattato.
“È stato un momento complesso della sua carriera, fino a quel momento fulgida: re Mida non era più tale e la botta micidiale fu appunto il 2002. Nel 2001 stravince: coppa Italia, scudetto ed Eurolega, per altro azzerando la Fortitudo. Nel 2002 finisce tutto: il rapporto con Madrigali non funziona, la squadra non è l’orologio perfetto dell’anno precedente e a marzo viene esonerato. Per lui, il migliore da vent’anni, uno shock. Fino a quel momento l’unico altro ko incassato era stato quello a Karlsruhe con la Nazionale nel 1993: per il resto, una vita in autostrada. Il contraccolpo fu pesantissimo. La partita contro Trieste venne ritardata di mezz’ora per un’invasione di campo: il disagio fu estremo, Madrigali fu anche colpito. Il giorno dopo Messina fu richiamato a furor di popolo e finì la stagione sulla panchina, ma qualcosa non andava più. La Virtus perse la finale di Eurolega proprio qua a Bologna, contro il Panathinaikos. Griffith non era più quello dell’anno prima, Messina fu accusato di non aver usato il rinforzo che gli aveva garantito Madrigali, Antonio Granger: andò bene nel primo tempo e non giocò nel secondo. Quell’anno in definitiva segnò per lui la scoperta della fragilità. Nei playoff uscirono contro la Benetton Treviso di D’Antoni: una squadra che arrivava ai cento punti, perfetta per battere una formazione improvvisamente insicura. Si capiva che erano a fine corsa. Lui si flagellò per l’insuccesso. Fece il giro di tutte le televisioni e le radio che lo avevano prenotato per quella che doveva essere l’intervista del trionfo e si dichiarò colpevole, infliggendosi una dolorosa espiazione. Rispose sempre alla stessa domanda: ‘come avete fatto a perdere?’”.
Com’erano i rapporti di Messina con gli allenatori rivali?
“Formalmente buoni con la maggior parte di loro. C’è stata una forte rivalità invece con Sergio Scariolo, che sfociò anche in uno scambio di lettere su Repubblica quando Scariolo accettò la guida della Virtus di Madrigali. Su questa vicenda furono divisi furiosamente, ma in seguito si riappacificarono. Di quella generazione, loro sono i rivali per definizione: i Rocco ed Herrera del basket”.
Quando viveva a Bologna, quali erano i suoi luoghi preferiti? E ora che rapporti ha conservato con la città?
“Non era un tipo mondano, non era uno della Bologna di notte. Poi giocando l’Eurolega era spesso in trasferta, in pratica aveva una vita dimezzata dal lavoro, quindi il tempo che gli restava lo passava principalmente in famiglia. Ora che è lontano da Bologna dal 2002, ha comunque conservato i rapporti con i suoi amici fuori dal basket, con quelli che furono i suoi assistenti, con qualche vecchio giocatore. Sono queste le persone che frequenta quando torna in città, dove è ricordato con grande affetto: nel giugno 2017 ha partecipato alla festa di Repubblica e ha tenuto una conferenza di un’ora. Molte persone hanno voluto salutarlo, stringergli la mano: si è conservato un rapporto sentimentale molto forte tra lui e la città”.
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 48-51