Desio e poi… Una Effe da impazzire

Desio e poi… Una Effe da impazzire

Due stagioni non banali di A2 in Brianza, seguite da quattro tumultuose alla Fortitudo. Portata dal nulla alla sua prima finale scudetto, tra le follie di una Basket City mai così effervescente

Perché Bologna è Bologna. Ed è un po’ come Sanremo: puoi parlarne bene o male, può piacerti o non piacerti, ma è impossibile ignorarla, ed alla fine vogliono andarci tutti. Passa per una Bologna forse mai tanto dinamica, frizzante, pazzamente innamorata della palla arancione e delle sue due squadre come nei primi anni 90, il destino di un Sergio Scariolo che ha appena scavallato i trent’anni. Praticamente un ragazzino, ma con in tasca già uno scudetto da capoallenatore, mischiato all’esperienza di chi ha mangiato anche il pane duro della serie A2, visto i campi di periferia, vissuto situazioni complicate, lontane dal basket di vertice, facendo con quel che c’era. Perché c’è un prologo: Desio.

E’ in Brianza che riparte lo Scariolo post-Pesaro. Stagione 1991/92, è solo A2, un altro mondo. «Dopo due stagioni di basket di vertice forse non era quello che si poteva desiderare, Desio invece fu un’esperienza molto gratificante» è la sua sintesi di un ciclo di due anni in un club di provincia ma ambizioso, piccolo ma ben organizzato. «Guidato da un grande uomo di basket come Pieraldo Celada, affiancato da alcuni imprenditori locali che avevano passione. Fu un bel periodo, arricchito da belle relazioni personali». Appena inaugurato il PalaBanco Desio, gran bell’impianto per l’epoca, l’idea è quella di crescere, società e squadra, partendo dal basso. Solo lo sponsor fa pensare a grandi cose: la squadra si chiama Billy Desio, stranieri Dan Caldwell e Hansi Gnad. «Il primo anno, dopo un inizio difficile, rimontammo molto bene nella seconda parte della stagione, fino ad arrivare ai playout, ma mi ero trovato la squadra già quasi fatta. L’anno buono doveva essere il secondo, quando ho potuto influire un po’ di più fin dall’inizio».

Siamo nel 1992/93, ora il nome è Hyundai Desio, partenza forte, prima fase dominata. «A lungo in testa con anche un vantaggio di due-tre vittorie sulle seconde, lanciati verso la promozione diretta, ma poi…» Ma poi si fanno male i due pilastri della squadra, uno dietro l’altro: Mark Davis e Hansi Gnad. Un colpo troppo duro, per il basket dei due soli stranieri. «Provammo a sostituirli, ma non c’era più margine, trovammo giocatori non all’altezza di quei due che stavano dominando la categoria». A fine stagione regolare Desio è terza, a due vittorie dalla prima (Reggio Emilia) e una sola dalla seconda (Verona) che si prendono la promozione diretta. Deve accontentarsi dei playout, niente da fare per l’A1. «Un peccato. C’erano comunque buone basi, giocatori giovani che crescevano e che avrebbero fatto molto bene, l’anno dopo, quando il mio assistente Giampiero Hruby, che mi aveva seguito da Pesaro, con qualche aggiustamento e facendo molto bene tutto, avrebbe centrato la promozione in A1 che ci era sfuggita l’anno prima. Purtroppo però per poi vedere la società, trasferita a Roma». Titolo sportivo ceduto, è il club di provincia che salva quello della capitale appena retrocesso, con grande delusione della gente di Desio. «Certo, Roma è un’altra cosa, c’era un progetto sportivo e d’impresa di ben altro calibro, con un socio potente come Corbelli. Ma dipende sempre dai punti di vista: anche a Desio c’era passione».

Scariolo è ancora a Desio, nella primavera 1993, ma i giornali dicono sia già a Bologna. C’è del vero, lui però gioca a carte scoperte. «Come ho sempre fatto nella mia carriera, in casi del genere. E’ vero, verso fine stagione mi era arrivata una telefonata dalla Fortitudo, era Beppe Lamberti che mi chiedeva di vederci. Ma ne informai immediatamente Celada. Volevo che la società lo sapesse da me». Finita la stagione, inizia a frequentare Bologna. «Facemmo un paio di riunioni, si capiva fin dal primo momento che il progetto della Fortitudo era molto ambizioso. Conobbi Giorgio Seragnoli che mi espose i suoi piani, chiaramente di altissimo livello. Con Celada fu facile trovare una intesa». Il coach ha una clausola di uscita dal contratto con Desio e la esercita. Nel frattempo, con una rocambolesca cavalcata nei playout sotto la guida dell’ex assistente Dario Bellandi, la Effe bolognese guadagna un’insperata promozione, all’ultimo minuto dell’ultima partita in casa contro Rimini: si parte dalla A1 e non dall’A2, come lo stesso Scariolo aveva messo in conto. 

Ma si parte con l’handicap: sei punti di penalizzazione in classifica, l’accusa è un premio a vincere pagato durante i playout alla squadra di Modena. «Neanche il tempo di arrivare, di cominciare a pensare alla squadra, che esplode la notizia della penalizzazione. Curioso, ho poi scoperto molti anni dopo che in Spagna i premi a vincere sono del tutto legali, purché trasparenti e pubblici. Sono ovviamente sanzionati solo i premi a perdere». Invece qui è una bomba, che esplode d’estate. «Lo scoprii che ero al mare. Ricordo il presidente Palumbi che ai giornali disse qualcosa tipo “ci hanno retrocesso prima ancora di cominciare il campionato”. Io però non la pensavo così». Sei punti, tre vittorie, sono moltissimi per una neopromossa, ma non si può fare altro che tirare dritto. «Stavamo costruendo una squadra interessante, equilibrata, tenendo qualcuno dei protagonisti della promozione: Corrado Fumagalli, Max Aldi, Andrea Dallamora, Dallas Comegys. Volevamo integrarli con giocatori di sicura prospettiva, per fare alla fine una squadra competitiva anche da neopromossi, ma ancora non sapevamo che tutto si sarebbe complicato così, al punto da partire da -6».

Assente da tre anni dalla massima serie, finalmente trovata la solidità economica con la nuova proprietà, nasce ugualmente una grande Fortitudo. «Il primo giocatore che ho preso, la mia primissima scelta, fu il povero Andrea Blasi. Subito dopo Dan Gay, che era il totem carismatico. Infine Vincenzo Esposito, il grande funambolo. Ricordo che c’era in ballo la scelta tra due nomi, Esposito e Abbio, le dinamiche di mercato ci portarono su Vincenzo, ed Abbio andò alla Virtus». Vincenzino è la miccia che innesca un’esplosione, di basket e di entusiasmo. La squadra ha tutto, per piacere alla sua gente, ad una piazza assetata di vittorie e rivincite. «La completammo con tanti giovani, Marcelo Damiao, Davide Lamma, Nick Zecca, Andrea Sciarabba, e poi prendemmo Roberto Casoli da Reggio Emilia cambio dei lunghi».

La miscela è esplosiva, la penalizzazione presto cancellata, presto non si corre più per la salvezza ma per i playoff. Esposito fa numeri spettacolari ma anche quando deve fermarsi per una broncopolmonite la squadra continua a macinare vittorie: per certi vecchi fortitudini è la stagione più divertente di sempre. «Effettivamente un’annata incredibile, la penalizzazione recuperata molto in fretta, addirittura la corsa fino ai playoff, un entusiasmo incredibile attorno alla squadra, al di là delle aspettative». Il 93/94 si chiude con un clamoroso sesto posto, che oltre ai playoff (battuta Varese negli ottavi, stop con Trieste nei quarti) vale anche uno storico ritorno nelle coppe europee. La scalata continua, tumultuosa, travolgente, ma disordinata. «Anche le due stagioni successive furono entrambe di grandissima crescita». 

Ormai la Fortitudo è protagonista sul mercato, soffia giocatori alle grandi, prende il meglio che c’è in giro, come Ale Frosini da Verona, e soprattutto il divino Sasha Djordjevic da Milano. «Fu immediatamente la mia scelta nel ruolo di play, era chiaro che Fumagalli, ottimo giocatore fino a un certo livello, fisicamente pagava troppo la taglia piccola quando si saliva a sfidare le più forti». L’obiettivo dichiarato è entrare tra le prime quattro, e naturalmente competere con la grande Virtus, praticamente un campionato nel campionato, che incendia la città: mai viste prima, due squadre di Bologna entrambe di così alto livello. Desiderata dalla piazza quasi come uno scudetto, arriva anche una vittoria nel derby, nel marzo ’95, quello di ritorno, con una superba prova della coppia Esposito-Djordjevic, sigillata da una giocata difensiva finale di Claudio Pilutti su Danilovic, che fa saltare in aria il PalaDozza: finalmente la Virtus è messa sotto. «Importantissimo, in quel contesto di squadra, Pilutti. Anche lui una delle primissime scelte. Giocatore cardine, che ci dava equilibrio tra attacco e difesa».

Una stagione entusiasmante, pubblico debordante in casa e trasferta, secondo posto in stagione regolare (23-9), il ritorno in Europa con la partecipazione alla Coppa Korac ed un derby vinto, il 94/95 si conclude in semifinale-playoff contro Treviso. «Fu un’altra grande stagione, per poi immetterci nella terza con l’innesto dei giocatori di Rimini». Il blocco comprende non solo Carlton Myers, che cambierà per sempre la 
storia del club, al posto dell’amato Vincenzino volato in NBA ai Raptors, ma anche Max Ruggeri e Franco Ferroni. «Ci furono purtroppo molti infortuni importanti, compreso uno a Carlton. Arriviamo comunque alla finale scudetto contro una Milano molto forte. Vinciamo la prima partita, andiamo sull’1-1, la seconda in casa l’avevamo in pugno ma ce la lasciammo scappare, con qualche errore nel finale. Un grande canestro di Bodiroga fece saltare il banco in gara3, poi perdemmo la serie al Forum alla quarta». E’ la prima finale-scudetto della storia della Fortitudo, nessuno può lontanamente immaginare che ne sarebbero seguite altre dieci (due sole vinte) in undici anni.

La traiettoria biancoblù è ancora in crescita, quarti di finale il primo anno, semifinale il secondo, finale il terzo, eppure scatta una insensata caccia al colpevole. «Era la prima finale della storia del club, sicuramente andava vissuta in una maniera diversa. L’immaturità, l’ineducazione sportiva della società, anzi del suo nucleo dirigente, fu evidente. Quello che era comunque un grande risultato venne vissuto nel modo sbagliato, come una grande delusione». Sono queste le ragioni alla base del giallo dell’estate 1996: il caso-Djordjevic. Miglior playmaker d’Europa per distacco, ancora sotto contratto, il serbo è messo alla porta dalla sera alla mattina, senza una spiegazione plausibile. «Da contare poi che Djordjevic quella finale l’aveva giocata in condizioni fisiche precarie. Seragnoli sbagliò completamente: pensava che si stesse risparmiando per le Olimpiadi di Atlanta. Io ero assolutamente convinto del contrario, feci il possibile per farlo ragionare, fargli cambiare idea, ma lui era così, aveva messo la croce addosso a Sasha e non ci fu nulla da fare».

E’ una decisione scellerata sotto tutti i punti di vista (si continua a pagarne metà del pesante contratto per farlo giocare in NBA a Portland), secondo gli storici la madre di tutte le disgrazie accadute poi a catena alla Fortitudo negli anni a venire. «Cercammo in tutti i modi di ritardare la decisione, alla quale io dissi di essere totalmente contrario. Ma poi la finale scudetto con Milano l’avevo persa anch’io, ed agli occhi del proprietario iniziai ad andare in disgrazia: difendendo Djordjevic ottenni quasi l’effetto opposto, la cosa accelerò la sua uscita». Via contro il volere di tutti Mister Europa, che a luglio guida la Jugoslavia a un magnifico argento olimpico contro il Dream Team, la Fortitudo mette al suo posto un grigio John Kevin Crotty, e la piazza mugugna. «Ma era anche il nostro primo anno di Eurolega, dove facemmo un ottimo esordio. Eravamo primi nel girone, con una grande serie di partite europee, pagate un po’ in campionato, dove facevamo un po’ fatica. Forse non eravamo attrezzatissimi per reggere sui due fronti, si era anche infortunato Conrad McRae, l’indimenticabile Mangiafuoco».

E’ il 18 novembre 1996 quando arriva l’esonero, dopo una sconfitta di un punto a Trieste. E’ il primo della carriera, rimarrà anche l’unico. Con la squadra prima nel suo girone di Eurolega e quarta (6-4) in Serie A, tutto ancora da giocare. «Arrivò abbastanza a sorpresa. Ma conoscendo l’umoralità di Giorgio Seragnoli, sapendo che in società non c’era una diga per arginarne l’impeto decisionista, forse meno a sorpresa di quel che si può pensare. E non per colpa dei dirigenti dell’epoca, tutti ottimi professionisti, da Maurizio Albertini all'inizio a Toni Cappellari e Santi Puglisi poi. Ma quella era una società totalmente presidenzialista, non c’era alcuna possibilità di far cambiare idea all’Emiro».

In uno strano gioco del contrappasso prende il suo posto sulla panchina biancoblù Valerio Bianchini, uno dei suoi primi maestri, ma serviranno altri quattro lunghi anni, e cocenti delusioni, per vedere l’alba del primo scudetto fortitudino. «Seragnoli certo aveva portato grandissimi giocatori, è innegabile. Ma anche una fragilità societaria che impediva, soprattutto all’inizio, di costruire una mentalità solida, che potesse sopportare i naturali momenti di difficoltà. Anche se c’erano grandi personalità all’interno dello spogliatoio». 

Finiscono così quattro anni impetuosi, con giocatori straordinari come Esposito, Djordjevic, Myers, ma anche Gay, Comegys, McRae, momenti di esaltazione seguiti da cadute improvvise, in tipico stile Fortitudo. «Spesso il problema era proprio l’atteggiamento che la proprietà aveva per un giocatore o per l’altro, a seconda dei periodi. C’erano innamoramenti fulminei, ferventi, verso un giocatore che prima diventava l’idolo assoluto e poi alle prime difficoltà cadeva in disgrazia. Quindi ci si innamorava di un altro, con rapporti di intima amicizia tra il giocatore e il proprietario. Che poi cambiava idea poco dopo. La gestione, insomma, era molto, molto difficile».

Il bilancio del suo primo ciclo bolognese però è positivo lo stesso. «Esperienza bellissima, in una grande città di basket, con in più questa rivalità cittadina feroce, che però io sono sempre riuscito a mantenere all’interno di binari di assoluta sportività e correttezza». A Bologna sono gli anni delle cosiddette Guerre Stellari, il basket in città è sempre stato una religione ma non si erano mai toccati livelli di questo genere di parossismo. «La rivalità è il sale dello sport, da un lato era tutto bellissimo, ma dall’altro, con un vicino di casa fortissimo con cui confrontarti tutti i santi giorni, si rischiava continuamente di andare fuori dalle righe. Ma cercai di non farmi mai coinvolgere in operazioni che caricassero troppo l’ambiente, di evitare atteggiamenti eccessivi. La piazza era già fin troppo carica».

Persino un hobby apparentemente innocente come il tennis poteva diventare un problema, nell’aria avvelenata di quegli anni bolognesi. «Anche la mia amicizia con Ettore Messina divenne un problema. Qualche volta, nei giorni di riposo, prendevo la racchetta e andavo a giocare con lui sui campi in terra rossa della Virtus Tennis. Mi sembrava una cosa normalissima, ma quando finì sui giornali ci fu grande scalpore. Il fatto è che appena perdi una partita che dovresti vincere tutto si trasforma in problemi, polemiche, sospetti».

Sullo sfondo resta però Basket City, quella del suo massimo splendore, metà anni 90. «Città comunque godibilissima, a misura d’uomo, anche al di fuori dalla pallacanestro. Traffico della tangenziale a parte, una delle città di basket europee in cui si vive meglio». Sempre Bologna gli offre anche un’opportunità fin lì non ancora sperimentata: la libertà di studiare ed aggiornarsi a stagione in corso. Anche quello un passaggio cruciale, per la carriera che verrà. «Vissi quella seconda parte della stagione senza squadra con l’idea di crescere, di allargare i miei orizzonti. Andai a vedere allenamenti di colleghi per imparare cose nuove, ed iniziai a studiare seriamente lo spagnolo. Un po’ lo masticavo già da prima, ma lì ebbi il tempo per approfondire, andare a fondo. Volevo prepararmi per quello che era già un mio desiderio, cioè andare a lavorare nel campionato che chiaramente in quel momento stava diventando il migliore d’Europa, anzi il migliore del mondo fuori dall’NBA: la ACB». In definitiva si può forse dire che sia stata Bologna, a spedire Scariolo in Spagna.

Fast-forward sei anni, fino all’estate 2003, ecco il secondo Scariolo bolognese. Esperienza breve eppure intensa, con aspetti kafkiani, conclusa senza giocare nemmeno una partita. La Virtus ha appena conosciuto l’onta della radiazione, Claudio Sabatini sta cercando di farla ripartire in qualche modo. «E’ l’estate in cui arrivo alla fine del contratto col Real Madrid, ma in realtà ero ancora al Real quando mi arrivò un’offerta da parte di Madrigali, con grande volontà di rilancio della Virtus». Marco Madrigali, il presidente del Grand Slam 2001, finisce invece seppellito sotto una montagna di debiti. «In quel momento dal di fuori ancora non si vedeva bene il buco nel quale si era cacciata la società. Ricordo che mi fecero parlare con un potenziale nuovo socio che avrebbe portato capitali freschi, e con uno sponsor di grande prestigio, che mi garantirono era pronto ad entrare. Viceversa, per questioni che non ho mai capito bene, successe che Madrigali rimase da solo col suo mare di debiti. Riuscì a subentrare in extremis Sabatini, che si impegnò a salvare la Virtus con l’aiuto di noi che avevamo formato il nuovo staff tecnico. Per tutta l’estate abbiamo lavorato a fondo, tenuti in bagnomaria in attesa degli eventi».

E’ una corsa contro il tempo, c’è prima da salvare il club, poi da riottenere l’affiliazione federale, nel frattempo pensare a una possibile squadra, il percorso è complicatissimo. «Ma l’ingresso di Sabatini fu una scintilla di energia, ci mettemmo tutti al lavoro. Scoprimmo i 15 milioni di voragine debitoria, con poco più di 5 milioni dovevamo provare a transare con tutti e presentarci puliti dai debiti, come ci era stato chiesto, al di là del lodo Becirovic, quello che materialmente fece scattare il meccanismo. Riuscimmo ad ottenere le transazioni con tutti, giocatori, allenatori ed agenti, presentando quindi una fedina penale ripulita al consiglio federale, che però non la accettò. La Virtus non venne riammessa ma Sabatini non si arrese, escogitò l’idea della fusione con il club di Castel Maggiore per non perdere il nome Virtus, c’era anche una promessa  dell’Eurolega di continuare a partecipare alla competizione europea». Solo che si sarebbe dovuti ripartire dall’A2, fondendo tra l’altro due realtà già esistenti, per poi rilanciarsi in grande stile col nome Virtus e tutto il resto a partire dalla stagione successiva.

«Avevo la possibilità di restare ma la situazione mi sembrava poco chiara, così la decisione fu di lasciare la Virtus al nuovo staff tecnico assorbito da Castel Maggiore. Tornai in Spagna e andai poi negli Stati Uniti a seguire la pre season dei Nets, che erano freschi della finale NBA, con Jason Kidd. Ma devo dire che Sabatini riconobbe con generosità lo sforzo fatto da chi aveva lavorato tutta l’estate. Cosa che gli fa onore, non era obbligato a farlo: avevo un contratto di tre anni anche abbastanza pesante, ma potevo uscirne e avevo già deciso di farlo». Per un Sergio Scariolo allenatore Virtus si sarebbero dovuti aspettare altri diciotto anni, ma è un’altra storia.

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Giganti # 11 (maggio 2023) | Pagina 46-53

Enrico Schiavina

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