Krešimir Cosic precursore del basket moderno
Un alieno sceso sulla terra per esplicitare il concetto di pallacanestro contemporanea, con 40 anni d’anticipo. Un centro “errante” che scardinò le abitudini e i pregiudizi dell’epoca
Scrivere di Krešimir Ćosić è per me una sfida al limite, se non molto oltre, delle mie capacità. Si è trattato semplicemente del più grande giocatore europeo mai nato (a dire vero lo sarebbe stato Sabonis, se solo fosse stato, diciamo così, un po’ più morigerato nelle sue abitudini). Ne sono strasicuro, ma il problema è che è nato e vissuto in un’epoca che può essere ricordata solamente da gente che ha suppergiù la mia età, e dunque vallo tu a dire ai bambocci odierni che non si rendono conto di essere nati domani, e che dunque credono che il basket sia progredito per forza di cose, per cui sono sciaguratamente convinti che quelli di oggi si mangerebbero in insalata quelli di ieri o addirittura dell’altro ieri. Chi non l’ha mai visto giocare al massimo delle sue capacità, si parla degli anni più o meno fra il ‘67 e il ’71 del secolo scorso, da quando si mise in mostra agli europei in Finlandia del ’67 fino alla sua conversione religiosa avvenuta in America che gli tolse gran parte delle straordinarie doti atletiche che aveva, non può avere idea di che tipo di giocatore si trattasse.
Provo a descriverlo: era un perticone di 2 metri e 11, secco e allampanato, con braccia smisurate, ma la sua scarsa stazza atletica era compensata in abbondanza da una straordinaria solidità articolare, e infatti gli infortuni di gioco che ha avuto sono stati rari, e da una reattività nervosa incredibile che lo rendeva molto veloce e soprattutto fulmineo di riflessi. La sua coordinazione sembrava strana, si muoveva come fosse sui trampoli, ma i suoi interminabili tentacoli finivano sempre ad essere al punto giusto. Era una persona di grandissima intelligenza, e dunque molto modesto, sempre volonteroso di imparare, e ciò in tutti i campi che lo interessavano, e il basket non era certamente l’unico. Capiva il basket come pochissimi eletti e sapeva leggere in modo quasi telepatico le intenzioni dell’avversario che aveva davanti. Del suo senso del gioco di squadra in questo contesto non si parla neppure. Quello non gli è mai mancato, come hanno avuto modo di vedere ed apprezzare a Bologna. Tecnicamente era semplicemente perfetto: trattamento di palla da guardia, passatore eccelso, tiratore da manuale (fra l’altro eseguiva in modo mortifero, quando serviva, il passo e gancio che si usava all’epoca – Jabbar, di cui era fra l’altro praticamente coetaneo – e ora non si usa più), insomma era un giocatore che, onestamente, in vita mia di così bravi e completi, per la statura che aveva, non ne ho più visti, né, ahimè, mai più vedrò.
Ricordo di un giovane cronista a bordo campo durante la sua prima telecronaca dal vivo: Ćosić prende un rimbalzo in difesa, palleggia verso destra e dal palleggio con la mano sinistra (non la sua mano) effettua un passaggio dietro alla schiena che attraversa tutto il campo e termina direttamente nelle mani del compagno lanciato in contropiede (Simonović) per un facile appoggio. E il giovane cronista poco manca che svenga dall’emozione.
Nato nel 1948 a Zagabria un po’ per sbaglio, nel senso che la famiglia, originaria di un’isola al largo di Zara, si era stabilita lì temporaneamente per lavoro, e infatti quando era ancora molto piccolo ritornò a Zara per stabilirsi lì definitivamente, Krešo cominciò praticamente da bambino a praticare lo sport per antonomasia di quella città, e cioè il basket. Il problema era che cresceva a dismisura, ma solo in altezza, tanto che i medici dicevano che con quel petto di gallina che aveva mai avrebbe potuto diventare un atleta. E invece lui li smentì clamorosamente, tanto che entrò molto presto nelle giovanili dello Zadar diventando subito protagonista. C’era però un altro problema, questo puramente tecnico dovuto alla sua altezza. All’epoca il centro veniva visto come un male necessario, incaricato esclusivamente di prendere i rimbalzi per dare subito la palla al funambolo deputato a fare spettacolo, quello per cui la gente pagava il biglietto per andarlo a vedere. Di palleggiare e tirare a canestro non si parlava neppure. Era pura blasfemia.
Nella sua autobiografia uscita molto postuma lo scorso anno lo dice lui stesso nella prefazione: “Non avevo modelli da seguire. All’epoca non esistevano giocatori del tipo di quello che io volevo essere. Ho dovuto dunque creare un eroe fittizio con le doti che volevo avere: una combinazione fra una guardia, un’ala forte e un centro “errante” del tipo che all’epoca non esisteva ancora (mentre oggidì ce n’è anche troppi – NdA). Per cui all’inizio non fui accettato. Non avevo un corpo perfetto, ero molto alto e magro, per cui trascurarono altre doti quali l’intelligenza e la tecnica. Ragion per cui entrai subito in conflitto con tutti. Non volevo essere quello che gli altri volevano che fossi. Non volevo conformarmi con qualcosa che mi avrebbe condotto alla rovina. Il mio temperamento e il mio animo erano del tutto diversi rispetto a quanto il mio corpo lasciava intendere. Dunque, decisi: se già non posso trovare un giocatore a cui ispirarmi, l’avrei trovato in me stesso”. E questo fece e questo lo rese tanto immenso. Scardinò tutte le abitudini e tutti i pregiudizi dell’epoca. A Zara cominciarono a vedere questo lungo perticone che, oltre a prendere rimbalzi a raffica e distribuire stoppate impossibili, palleggiava in contropiede, distribuiva assist e tirava da fuori. Incredibilmente, lo elessero a loro idolo per quanto in teoria, essendo un lungo, non avrebbero dovuto farlo. Però era tanto bravo che glielo perdonarono facilmente.
La sua carriera decollò immediatamente, del resto, viste le capacità che aveva, era impossibile che ciò non succedesse. A neanche 20 anni era un pilastro dello Zadar e della nazionale. Nel ’68 in Messico fu decisivo per il primo storico argento olimpico della Jugoslavia, e a Caserta nel ’69 agli Europei batté nel girone eliminatorio i sovietici praticamente da solo. Nel frattempo, in campo nazionale il suo Zadar, praticamente lui e Giergia, sfidava a suon di titoli alternati la formidabile Olimpija dell’epoca di Daneu, Bassin, del giovanissimo Jelovac e di Žorga.
Non contento di avere praticamente inventato il ruolo del lungo moderno con più di 30 anni di anticipo, Krešo nel ’69, subito dopo gli Europei campani, tracciò un altro storico solco facendo una cosa che all’epoca appariva del tutto inaudita, soprattutto per un giovanotto proveniente da un paese comunista: per aumentare le sue conoscenze andò in America a frequentare il college, segnatamente la Brigham Young University, università mormone di Provo nello Utah, primo europeo a cui fosse venuta in mente una cosa del genere. In America sgranarono gli occhi: secondo le loro credenze un europeo era uno sottosviluppato nel basket, ma vedendolo si ricredettero subito. Diventò un idolo subitaneo (quando lo facevano riposare il pubblico intonava in coro: “We want Chos, we want Chos”), entrò in tutte le possibili combinazioni di stelle del college, All-American fra tutte, grazie a lui la palestra del college divenne troppo piccola e dovettero costruirne una molto più grande, e grande fu la loro delusione quando disse a chiare lettere che lui era venuto lì per studiare e che, una volta finiti gli studi, non gli passava neanche per la testa di andare fra i pro e che tutto quello che desiderava era di tornare a casa a Zara (bei tempi, vero? – quando la gente aveva ancora una spina dorsale). Sarebbe stato, se non la prima (non esageriamo), comunque una delle primissime scelte del draft.
Purtroppo per noi (non per lui) a metà studi si convertì alla religione mormone, diventando vegetariano e inevitabilmente perdendo molto della sua reattività e in definitiva anche della sua forza fisica. Ragion per cui noi fortunati mortali potemmo vederlo all’epoca al picco delle sue capacità solo in altre due occasioni: ai Mondiali del ’70 in casa a Lubiana, quando fu l’indiscusso MVP della Jugoslavia vincitrice del suo primo storico titolo mondiale, e agli Europei in Germania del ’71, quando purtroppo indovinò la peggior partita della sua storia proprio nella finale persa contro i sovietici dopo aver semplicemente travolto tutto quello che aveva davanti nelle partite precedenti.
Ovviamente non è che poi vinse poco: negli anni ’70 fu un pilastro insostituibile della Jugoslavia vincitrice di praticamente tutto, tre Europei di fila, un titolo olimpico e uno mondiale, idolo di Bologna, insomma non è che fece poco. Ma, credetemi, quanto mostrato nei suoi anni d’oro rimane un ricordo struggente e indelebile nella mente di ogni appassionato di basket.
A fine carriera andò a giocare nel Cibona a cui portò in dote un titolo jugoslavo e una Coppa delle Coppe, poi fu allenatore della nazionale jugoslava, ma questa è un’altra storia, meno densa di successi, per tutta una serie di ragioni che richiederebbero una trattazione a parte. La sua storia personale poi lo vede ambasciatore della Repubblica croata negli Stati Uniti dopo l’indipendenza e purtroppo vede anche la sua vita troncata a soli 47 anni da un incurabile tumore al cervello.
Rimane però quanto da lui fatto in campo e nella vita. Chi è stato Krešimir Ćosić? Un gigante del nostro sport nato sicuramente almeno 40 anni troppo presto. Cosa potrebbe fare oggi se potessimo disporre di una macchina del tempo? Avete presente un Dončić di 2 e 11 che salta come un grillo e stoppa tutto quello che gli passa davanti? Ecco, adesso potete avere una pallida idea di quello che sarebbe.
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Superbasket # 57 (giugno-luglio 2022) | Pagina 76-81