“Real amaro. Incontrarsi e non capirsi”
Un club al top, un allenatore-star: sembra un incontro perfetto, ma non funziona. “Ho faticato a capire l’unicità di quell’ambiente e alla fi ne proprio questo ha pesato più degli aspetti tecnici”. E Messina dice stop a metà della seconda stagione
Uno dei club più blasonati d’Europa, un coach all’apice della sua carriera. La combinazione Real Madrid-Ettore Messina prometteva un futuro di trionfi. Purtroppo non bastano due costanti a risolvere un’equazione cestistica. Le incognite sono numerose e determinanti. Fattori ambientali, giocatori, cicli sportivi, momento storico, persino la fortuna si ritagliano sempre un ruolo più o meno importante. L’esperienza del coach in Spagna durerà meno di due stagioni e si concluderà con un addio precoce e amaro. Non esistono carriere di sole vittorie e sorrisi, ma dai risvolti più sgraditi si salva il meglio e si volta pagina. A maggior ragione se parliamo di un percorso trentennale, sempre al top, sempre inseguendo la vittoria, sempre sotto pressione.
Nell’estate del 2009 il trasferimento in un altro club importante e ambizioso: il Real Madrid. Quale fu l’impatto con questa nuova realtà spagnola?
“Il mio arrivo al Real è stato da superstar: firmai il contratto nella sala dei trofei, fui presentato al Santiago Bernabeu, come succede con i calciatori. Il Real Madrid è unico, solo vivendolo in prima persona lo si capisce, e io lo compresi con fatica, molto dopo. Anche il Cska è una polisportiva di livello e riconoscibilità nazionale, ma non ha l’impressionante eco mediatico del Real: non ci sono tifosi, bensì qualche milione di presidenti. Si avverte quasi l’obbligo di rispondere di ogni comportamento a questa massa di giudici. Succedeva spesso che, dopo una partita persa, in sala stampa il giocatore di turno chiedesse ‘perdono’ alla tifoseria: un’abitudine che mi colpiva e allo stesso tempo mi faceva imbestialire. Il mio modo di impostare le cose era un altro: ‘Ci abbiamo provato, abbiamo dato tutto e abbiamo perso, punto’. Ho tardato a comprendere e interiorizzare queste dinamiche. Il Real è un posto molto elitario. Devi conoscere tutte le tradizioni, gli usi e costumi, la storia: io fui un po’ ingenuo all’epoca. È stato un errore fondamentale, che ha pesato più di quelli tecnici”.
Le sue difficoltà sfociarono nelle dimissioni, prima della conclusione della seconda stagione. Cosa la spinse a quel gesto?
“Nell’arco di quei mesi, la disputa con il direttore della sezione pallacanestro, Juan Carlos Sanchez, era sul concetto di competere contrapposto a quello di ganar, cioè vincere. Ma facciamo il quadro della situazione: i miei cinque giocatori più importanti erano Sergio Rodriguez, Nikola Mirotic, Segio Lull, Ante Tomic e Carlo Suarez: un’età media davvero bassa, attorno ai 22 anni. Avevamo giocato una bella Copa del Rey, perdendo solo la finale di 8 punti contro il Barcellona, che durante la mia permanenza spagnola era il migliore degli ultimi 20 anni. Dopo questa sconfitta dichiarai che l’importante era competere, crescere, migliorare ed avere la consapevolezza di essere in grado di battersi a quel livello. Subito dopo uscì un’intervista di Sanchez in cui faceva una puntualizzazione: ‘Il coach si è confuso, qua a Madrid conta solo vincere’. La settimana seguente perdemmo di 18 contro Siena, in Eurolega, una partita che non contava ai fini della classifica, eravamo già qualificati da primi. C’erano il timore di farsi male e una mancanza di motivazioni: insomma la squadra non lottò per niente. Lo interpretai come un segnale abbastanza forte, mancava una comunità di intenti: avevo appena sottolineato l’importanza di battersi sempre e la squadra il giorno dopo è scesa in campo facendo l’opposto. A quel punto pensai che il mio lavoro non stava funzionando e me ne andai, lasciando due anni di contratto sul piatto. Fu un peso che mi tolsi. Mi resta comunque il dispiacere di non essere stato l’allenatore che ha riportato Madrid alle Final Four dopo dieci anni. L’amarezza di essermene andato prima è rimasta, ma ero arrivato ad un punto di non ritorno”.
Che rapporti conservò con l’ambiente dopo le sue dimissioni?
“Quando tornai due anni dopo a giocare a Madrid, con il Cska, appena prima della palla a due, Rodriguez, Lull e Mirotic attraversarono il campo e mi vennero a salutare, davanti a tutto il pubblico, che al contrario non mi aveva accolto per niente bene. Fu un gesto che mi colpì molto, che tutt’ora ricordo con piacere. Così come non dimentico l’abbraccio in mezzo al campo di Brunamonti, quando vincemmo lo scudetto e lo tolsi per gli applausi. Questi sono momenti sinceri, che mi sono molto cari. Mi rendo conto di essere stato parecchio esigente nella mia carriera, magari a tratti anche insopportabile in palestra. Mi è capitato di tornare a casa dopo un allenamento e rimuginare sul fatto di non essere riuscito a lasciar passare alcune cose, ma non è così facile. Anche per questo sono grato ai giocatori che mi hanno accettato così come sono. Con Florentino Perez rimasi comunque in ottimi rapporti, è una persona a cui sono affezionato”.
Nei suoi anni al Real ha avuto anche modo di conoscere Mourinho?
“Sì, e sono andato a vedere anche qualche allenamento. È una persona molto interessante. Non sono un esperto di calcio, ma mi sono accorto di come gli allenamenti fossero davvero iper organizzati, brevi, intensi, con il chiaro senso di quello che si stava facendo. Osservavo come riusciva a sfruttare il talento dei suoi assistenti e di tutto lo staff. In privato è una persona gentile e affettuosa, poi quando lo vedevo nei momenti ufficiali, metteva la maschera, la faccia da Mourinho”.
Lei invece ha sempre la stessa faccia, non ha due versioni.
“Mi si legge facilmente sul volto quello che penso, e di conseguenza lo percepisce anche il giocatore. C’è chi riesce a fingere di non vedere: ci sono dei momenti in cui sarebbe più giusto così. Non si può essere costantemente presenti tutto il tempo, si esauriscono le energie, le tue e quelle dei giocatori. Questo è stato un mio errore, anche se nel corso degli anni sono migliorato. Mi rattrista quando mi sento dire: ‘Sai che alla fine sei simpatico e gentile, non pensavo’. Purtroppo in questo mestiere capita di indossare una corazza, come forma di autodifesa. C’è chi lo fa con più naturalezza, e chi lo fa per superare insicurezze e paure”.
Le dimissioni arrivarono nel marzo della sua seconda stagione a Madrid, e la squadra, guidata da Lele Molin, si qualificò per le Final Four. Come andò sul campo il primo anno invece?
“Quando arrivai a Madrid, con il gm dell’epoca, Antonio Maceiras, avemmo fretta di voler fare le cose al meglio e subito. Cambiammo troppo. Con il senno di poi sarebbe stato più intelligente mantenere la stessa squadra, da quarto-quinto posto, fare pochi inserimenti mirati e vedere come e se fosse migliorata allenandola in un modo diverso. Ma il desiderio di bruciare le tappe non ci aiutò molto. Fu anche un’annata un po’ sfortunata: l’iniziò fu ottimo, con 11 vittorie di fila in campionato e due successi contro il Panathinaikos nella prima fase di Eurolega. Anche in Copa del Rey il cammino fu positivo, salvo poi una pesante sconfitta contro il Barcellona in semifinale. Da lì iniziarono le insicurezze, le incertezze. Nelle Top 16 di Eurolega ci classificammo secondi, perdendo di un punto in casa con il Maccabi Tel Aviv, all’ultima giornata. Incontrammo così il Barcellona nei quarti di finale. Riuscimmo a vincere da loro, ma sull’1-1 nella serie crollammo in casa due volte di fila. Il cammino in campionato finì in semifinale, perdendo gara 5 a Vitoria, che poi avrebbe vinto il titolo. Sportivamente non fu un’annata negativa, ma a Madrid il peccato mortale è perdere contro i blaugrana, proprio come succedeva a Bologna per la rivalità Virtus-Fortitudo, solo moltiplicato ‘n volte’, a causa dell’enorme seguito”.
Il suo rapporto con la stampa fu conflittuale, cosa non funzionava?
“Fui sempre trattato molto bene dal club, mentre con la stampa ebbi un pessimo rapporto. Era come se i giornalisti fossero sempre alla ricerca del problema. Il meccanismo di relazione del club con la stampa è complesso: era una cosa più grande di me, che io stentavo a capire. In tutto questo feci degli errori. Un esempio: durante la mia seconda stagione, in un momento positivo, mentre ci stavamo preparando alla finale di Copa del Rey, mi chiesero che effetto mi facesse essere sempre assediato e criticato. Risposi ingenuamente che mi sentivo come i palestinesi con i missili ‘Scud’ che girano sopra la testa. Il giorno dopo ero in prima pagina sul giornale di Tel Aviv: tutti scandalizzati. Godevo di grande considerazione lì, tanto che mi chiamarono Pini Gershon e Doron Jamchi. Grazie al loro intervento mi organizzarono un’intervista telefonica, dove riuscii a spiegarmi e a sgonfiare il caso”.
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 92-94