“L’italiano che conquistò il cuore dei russi”

“L’italiano che conquistò il cuore dei russi”

Nel 2005 Messina lascia il nostro Paese, dove il clima sportivo è sempre meno respirabile, e approda al Cska, la squadra più amata della Russia: subito arriva la coppa più importante che mancava da 35 anni. Non rimarrà la sola. Dal granchio della Kamchatka alla parata del 9 maggio: Ettore guadagna così una dimensione internazionale e scopre che anche Mosca è casa

Andata e ritorno. O la regola del due. Nella carriera di Messina è presente spesso. E funziona. Due volte alla Virtus, nella Nba, in Nazionale, e a Mosca, naturalmente. È un record anche questo: pochi tecnici ripropongono le tappe del passato, soprattutto se il primo round, come nel caso di Ettore, è stato vinto alla grande. Le fermate russe sono particolarmente importanti nel percorso dell’allenatore nato a Catania, cresciuto a Mestre e radicato a Bologna, in particolare la prima. Motivo chiaro: quella scelta, che oggi è nella natura delle cose ma che nel 2005 non era poi così comune per un italiano, contribuisce in modo decisivo a definire la statura internazionale del personaggio. Dalla tranquilla Treviso alla megalopoli russa, il passo è grande ma compiuto in piena consapevolezza e maturità. I successi ne sono una conseguenza: i più pesanti sono due in Eurolega. Ma la scoperta più importante è un’altra: poter considerare Mosca come casa, dopo un saluto all’Italia che ha anche un risvolto amaro: il clima sportivo dalle nostre parti è sempre meno respirabile.   

Il basket, e quindi il suo lavoro, fa i conti con importanti innovazioni regolamentari: prima di lasciare Treviso e l’Italia, lei ha metabolizzato il passaggio ai 24 secondi, avvenuto nel 2004. Quali sono state le più importanti implicazioni?

“È stata una svolta epocale. Prima si poteva giocare per 20 secondi per poi fare arrivare la palla al miglior giocatore negli ultimi 10, con la difesa avversaria ormai esausta. Adesso c’è meno tempo e bisogna affidarsi di più all’estro dei giocatori, lasciandoli liberi di creare anche all’inizio del possesso. Poi l’avvento del pick and roll, naturalmente. Gli jugoslavi, scuola di riferimento, facevano molti blocchi per i tiratori, oppure davano la palla al centro per il suo uno contro uno: invece ora il modo migliore per creare un vantaggio più rapidamente è appunto il pick and roll, addirittura subito dopo il canestro subito. L’altro grande cambiamento avviene quando prima Obradovic, poi tutti a seguire, iniziano ad usare i cambi difensivi per difendere sul pick and roll. In definitiva l’idea fondamentale è di superare velocemente la metà campo, concetto che prima dei 24 secondi era meno decisivo”.

Come si è destreggiato in questo flusso di novità?

“È stato un cambiamento molto interessante e mi ha dato una scossa positiva. Ho avuto la fortuna di avere subito dei grandi interpreti che mi hanno fatto gradire enormemente il diverso modo di giocare. Ma ancora di più ho apprezzato il fatto che il passaggio è diventato un fondamentale ancora più importante: per trasferire velocemente la palla da un canestro all’altro, per sfruttare i cambi difensivi, per creare rapidamente un vantaggio su un lato del campo, e poi approfittarne dal lato opposto, dove ci sono i migliori tiratori. Ad esempio, non è un caso che un giocatore piuttosto lento, ma molto tecnico come Rigaudeau fece degli anni stupendi con i 24 secondi”.

E ora la Madre Russia: non è un approdo molto usuale per un tecnico italiano, tanto meno a quell’epoca. Il suo primo ricordo nelle trasferte precedenti?

“La mia prima trasferta a Mosca fu nel dicembre del 1984, era il girone finale della coppa dei Campioni, io ero assistente alla Virtus. Il giorno prima della partita, mentre ci stavamo allenando, arrivarono due militari in divisa, chiedendo se qualcuno parlasse inglese. Io ero l’unico, e li seguii. Mi portarono in cima al palazzetto: silenziosi, aria circospetta, mi sembrava tutto molto strano. Non nascondo d’essere stato un po’ teso. Arrivammo in una sala buia, dove aspettavano altri militari e un sistema audio dell’epoca. All’improvviso si misero tutti sull’attenti, e partì l’inno nazionale italiano. Lo ascoltarono impettiti poi mi chiesero conferma se fosse quello giusto. Volevano essere sicuri di non sbagliare il giorno dopo, ma io che non sapevo nulla mi presi un bello spavento!”.

Quando ebbe i primi contatti con il mondo Cska?

“Nel mio ultimo anno alla Virtus andammo a giocare a Perm, negli Urali. Il presidente era Sergey Kushchenko e l’allenatore il leggendario ex giocatore Sergej Belov. Era l’ultima partita di ritorno delle Top 16, noi eravamo già qualificati per le Final Four di Bologna, e per problemi con il volo di ritorno ci fermammo un giorno in più. Feci un clinic per gli allenatori locali e Kushchenko, con la sua assistente Vera Vakulenko, volle parlare con me e con Roberto Brunamonti. ‘Ma se qui in Russia ci fosse un progetto di una squadra importante potreste essere interessati?’, ci chiese il presidente. Nell’immediato non se ne fece niente, ma fu il primo contatto. Durante l’estate il colonnello Gomelski chiamò proprio Kushchenko come direttore generale al Cska. E dopo tre anni, nel 2005, lui mi ricontattò con la stessa proposta. Accettai. A Mosca sono stato benissimo, ho dei ricordi inestimabili, al di là dei risultati sportivi. Quando ci trasferimmo, il nostro bimbo, Filippo, aveva 8 mesi e potevo trascorrere tutto il mio tempo libero con mia moglie e con lui. Vista l’originalità della destinazione, a turno venivano a trovarci tanti amici e parenti: sarò andato al Cremlino quindici volte per accompagnarli tutti! (risata). Ma era un piacere”.

Un coach italiano a Mosca. Con che aspettative partiva?

“Quando lasciammo Treviso io e mia moglie non sapevamo bene a che cosa andavamo incontro. Fummo fortunati a conoscere Liborio Stellino, all’epoca consigliere di ambasciata. Fu decisivo nell’introdurci alla vita della città: ci diede consigli pratici su dove andare per la spesa, su cosa visitare e ci aiutò ad inserirci nella comunità molto viva degli italiani che abitano nella capitale russa. E pensate che noi per il trasferimento preparammo anche scatoloni di generi di prima necessità, dalla pasta alla carta igienica: in perfetto stile Totò (risata). Partii qualche giorno prima di mia moglie e a mano a mano che mi rendevo conto che ovviamente avevano tutto quello di cui avevamo bisogno, chiamavo stupito mia moglie: vivevo qualsiasi cosa come una scoperta! Questi preconcetti erano legati al ricordo delle trasferte con la Knorr in coppa delle Coppe negli anni '80 e '90: in quegli anni ci fu il default dell’economia e davvero mancava tutto, la situazione era drammatica”.

Com’era la sua vita quotidiana a Mosca?

Con il cibo non è stato subito semplice: in trasferta sono sopravvissuto con salmone ai ferri. La loro zuppa di rape, il borsch, non incontrava troppo i miei gusti, diciamo così… Tutte le volte con Lele Molin, fingevo di consultare attentamente il menu, ma la scelta era sempre la stessa. Avrò mangiato tutti i salmoni del Baltico! Una cosa davvero incredibile è il traffico. Molti lavoratori stranieri a Mosca utilizzano l’autista, che per noi è una prerogativa delle persone potenti, uno status symbol. Lì diventa spesso una necessità: tante volte il tragitto in macchina lo sfruttavo per lavorare. Mentre i vari Dimitri, Sasha etc. etc. mi portavano al palazzetto, io preparavo l’allenamento. Il traffico in settimana è talmente caotico che sai quando parti ma non quando arrivi. Solo dal quarto anno in poi ho iniziato a guidare e a muovermi in autonomia. Un altro ricordo molto intenso che ho di Mosca è il balletto al Teatro Bolshoi: un’esperienza indimenticabile. Mia moglie da ragazza faceva danza classica e grazie al Cska trovammo i biglietti. Devo ammettere che ero davvero scettico, ma d’altra parte mia moglie mi aveva seguito a Mosca quindi il balletto non ci fu verso di saltarlo! (risata). E per fortuna che andai, me ne innamorai subito”.

Com’era il rapporto con la gente?

“Al primo impatto sembra che tutti siano molto seri, un po’ arrabbiati perfino. La realtà è diversa, abbiamo incontrato tantissime persone aperte e gentili: dalla simpatica signora Lola, che teneva mio figlio le poche volte che uscivamo, a tutti quelli che lavoravano nel club. Dopo le partite, c’era sempre qualche tifoso che ci aspettava con un cioccolatino, un pupazzetto o un semplice sorriso. I tifosi del Cska sono miti, ma molto appassionati, ho ricevuto tanto affetto. La mia prima stagione mi regalarono, a Vladivostok un enorme granchio della Kamchatka, dentro una scatola. Era lessato, ma io me lo portai dietro una settimana per tutta la trasferta a Est, immaginate in che condizioni arrivò a Mosca... Dietro a questo episodio c’è la considerazione di cui gode il Cska: è la squadra di tutto il Paese, come accade per il Maccabi Tel Aviv in Israele. Venivamo accolti calorosamente ovunque, tutti tifavano per noi in coppa. Durante le trasferte successive alle due vittorie in Eurolega, era percepibile la felicità della gente. Rappresentavamo la Russia”.

E il clima? Si è mai sentito un po’ pioniere, un po’ isolato in questa avventura?

Il problema più arduo può sembrare il clima, ma per noi fu invece il buio. Da inizio ottobre a gennaio inoltrato c’era luce dalle 9 di mattina alle 4 di pomeriggio, niente di più. Inoltre novembre e dicembre sono mesi molto piovosi e umidi. A gennaio e febbraio il sole inizia a fare capolino più spesso, la città è imbiancata dalle nevicate, e si inizia a stare meglio. L’inverno è duro, ma la primavera è un periodo felice. In definitiva sono stato bene, per le trasferte di Eurolega tornavo quasi ogni settimana nell’Europa occidentale e con Skype la lontananza dall’Italia non è stata problematica: sia io che mia moglie eravamo sempre in contatto con i nostri cari. Per finire, l’Aeroflot, compagnia aerea di bandiera, nella mia seconda stagione mise un volo diretto Mosca-Bologna. Quella fu una svolta”.

Ha imparato il russo?

“Capivo più di quanto poi riuscissi ad esprimere, ma ero in grado di fare un commento base ad una partita. Loro erano contentissimi: lo sforzo di usare il russo è molto apprezzato. Potevo anche leggere il cirillico, grazie al greco che avevo studiato al liceo. In una delle tante chiacchierate in trasferta con il mio staff, si iniziò a parlare di politica internazionale. Il dottore disse: ‘Tutti pensano che la seconda guerra mondiale fu vinta grazie agli americani, ma se non fosse stato per noi il nazismo avrebbe trionfato’. La Russia ha 27 milioni di morti dichiarati. Aveva ovviamente ragione, dal suo punto di vista. Iniziai a riflettere più a fondo, andai anche a visitare il museo della guerra, ad esempio”.

Le trasferte di campionato in Russia non sono proprio quelle a cui siamo abituati in Italia...

“Mi incuriosiva da matti andare a Vladivostok, in particolare. Sette ore di fuso orario, undici ore di volo da Mosca. Tutti gli anni all’inizio della stagione facevamo il viaggio ad est: Vladivostok, Novosibirsk, Krasnojarsk. Stavamo via 5-6 giorni. Il mio primo anno, era ottobre, alla vigilia di questa lunga trasferta mi informai sulla logistica. Mi spiegarono che si usava partire dopo l’allenamento del pomeriggio, volare tutta la notte, e giocare subito il giorno dell’arrivo. E poi riprendere l’aereo per la seconda tappa. Ero a dir poco perplesso: dopo il viaggio ero distrutto, parlando con Lele mi chiedevo come i ragazzi avrebbero fatto a giocare! Ma la teoria del dottore si dimostrò giusta, e in tutti i miei anni in Russia non perdemmo mai. Tornando indietro per giocare le altre due partite riassorbivamo un po’ di fuso, ma questo tour de force lo si pagava comunque nella settimana seguente. Vladivostok aveva un fascino particolare. C’è il mare, l’oceano Pacifico. La città è un continuo su e giù per le colline, come San Francisco. In lontananza si vede la Corea. E soprattutto c’è una gran quantità di caviale. Ricordo che tutti sempre ne compravano un po’. Juri Yurokoff, dirigente storico, era addetto all’assaggio: i venditori arrivavano in macchina, aprivano il baule dove ne conservavano taniche intere e facevano provare il prodotto. Il prezzo era super competitivo, ma bisognava controllare che mettessero proprio quello nelle scatoline e non la versione taroccata!”

Un passo indietro: il Cska era la sua opportunità più interessante in quel momento della sua carriera? Ed era anche un modo per cambiare aria e provare un’esperienza all’estero? 

La situazione in Italia, vincendo molto, cominciava a diventare pesante: ero stanco di essere accolto in tutti i palazzetti con una serie di epiteti poco piacevoli. Io non sono il tipo di persona impermeabile a tutto: i comportamenti dei tifosi che vanno alle partite con l’elmetto mi danno un fastidio profondo. Già negli ultimi anni di Bologna, la rivalità tra le due squadre della città cominciava ad essere difficile da sopportare, così come ai tempi di Treviso quella con Siena. Per molti, ero diventato il nemico pubblico numero uno. Era tanto che rimuginavo dentro di me l’idea di andare all’estero, e quando mi chiamarono a Mosca mi sembrò l’occasione giusta, a maggior ragione visto che la società aveva i mezzi per competere in Eurolega. Certo c’era anche un po’ di timore: quando, in una trattoria di Treviso, Vera e Sergey srotolarono sul tavolo una carta topografica dell’enorme megalopoli di Mosca per decidere dove avremmo abitato in relazione agli spostamenti verso la palestra, io e mia moglie ci guardammo dicendoci con gli occhi: ‘Ma dove cavolo stiamo andando?”.

Come fu l’impatto sul piano tecnico?

La stagione precedente al mio arrivo e a quello di Lele Molin, il mio assistente, il Cska aveva perso la semifinale di Eurolega contro Vitoria, dopo esserci arrivato imbattuto. Un crollo, una sconfitta dura. La prima partita del nuovo corso, in casa contro Siena, mostrarono un video di presentazione tutto incentrato su quell’episodio. Nelle intenzioni della società doveva stimolare la rivincita, ma il risultato non fu quello sperato: la squadra era paralizzata e io passai tutti gli ultimi attimi prima della palla a due a rincuorare i ragazzi. Morale, giocammo una partita tesa e perdemmo. Nella gara successiva, altro insuccesso in Grecia contro il Panathinaikos. Anche in campionato non ci stavamo esprimendo bene. Il cambio di allenatore e di gioco era difficile da digerire: prima di me c’era stato Ivkovic, un santone della pallacanestro, con uno stile di gioco un po’ diverso. Dopo la sconfitta con il Pana andai a parlare con Kushchenko e Vera Vakulenko: mi ribadirono che loro capivano perfettamente la situazione, che avevano fiducia nel mio modo di allenare, che avrebbe fatto crescere i giocatori. Ma io gli dissi chiaramente: ‘Sergey, se hai il minimo dubbio, rompiamo il contratto, io me ne vado e riparto domani’. Lo esortai a prendere 24 ore per pensarci. Proprio in quei giorni mio fratello e mia cognata erano venuti a trovarci: quando raccontai a loro e a mia moglie cosa avevo fatto, mi presero per pazzo! La sera dopo suonò il telefono, era Sergey che mi confermava la sua fiducia. Tornai a tavola con la faccia tutta seria, per creare suspence, ma poi gli rivelai che saremmo rimasti a Mosca ancora per un po’ (risata)”.

Perché decise di rimettere questa decisione nelle mani di Kushchenko?

“C’erano alcuni giocatori, tra cui Papaloukas, che erano un po’ nostalgici del regime precedente. Giustamente, aggiungo: venivano da tre ottime stagioni e si sentivano insicuri. La squadra era cambiata e non c’era molto feeling tra il gruppo degli stranieri e i russi. C’era anche sfiducia generalizzata su cosa facevamo e sul perché lo facevamo. La situazione era un po’ intricata e io volevo essere sicuro che la dirigenza fosse contenta e convinta. Questo modo di agire è, nel bene e nel male, una costante nel mio modo di rapportarmi alla società: non riesco a rimanere in un posto quando percepisco che non c’è condivisione di intenti”.

Comunque nonostante questi bruschi assestamenti iniziali, nel 2006, alla fine della sua prima stagione, arriva la vittoria dell’Eurolega.

“I giocatori erano comunque molto maturi e la squadra fu presa in mano con molta sicurezza da Trajan Langdon, da Matias Smodis, da J.R Holden; quest’ultimo è un soldato, davvero dedito all’allenatore. E fondamentale fu Sergej Panov, capitano della nazionale russa: pur con i suoi ritmi, era a fine carriera, fece il Brunamonti della situazione. La squadra ebbe uno scossone a gennaio 2006, quando si fece male David Andersen e al suo posto arrivò Tomas van den Spiegel. Il nostro modo di giocare cambiò: prima cercavamo molto David in post basso, era il nostro miglior giocatore, che però era un realizzatore e creava poco; la conseguenza della sua assenza forzata fu che la squadra diventò più devota al pick and roll. Van den Spiegel e Papaloukas sembravano due maghi. Il greco in particolare fu incredibile, dispiegò tutto il suo genio e fu l’MVP delle Final Four. A Praga sorprendemmo tutti, battendo anche il Maccabi bi-campione in carica. Dopo 35 anni riportammo l’Eurolega a Mosca. Non vi dico quanto fossero contenti! Una scena poi è indimenticabile: Sergey Kushchenko quando mi vide nella bolgia in mezzo al campo, si bloccò e si inginocchiò per terra davanti a me (risata). Non ho mai visto delle persone così felici dopo una vittoria. Il ministro della difesa, Sergej Ivanov, che è tutt’ora il nume tutelare del Cska pallacanestro ed è un personaggio molto influente, a fine partita mi disse: ‘Mi chieda quello che vuole’ (risata). Io domandai un invito per me e mia moglie alla parata del 9 di maggio”.

Come mai proprio quell’evento?

È la ricorrenza per la vittoria nella seconda Guerra mondiale, uno degli eventi sociali più importanti in Russia. Nella Piazza Rossa sfila l’esercito, c’è il presidente che parla, tutti i reduci partecipano. È difficile andarci, ma alla fine io, mia moglie, Lele Molin, Sergey Kushchenko fummo invitati. Si tratta di una giornata incredibile, anche perché, sebbene sembri impossibile, come mi hanno spiegato, puliscono il cielo: con una sostanza chimica fanno letteralmente sparire le nuvole. Infatti mi ricordo proprio una giornata di sole splendente, un cielo azzurro sopra Mosca”.

Allenandoli ha scoperto qualcosa di più sul conto dei giocatori russi e sul loro modo di andare in campo?

“È difficile generalizzare, ma più che per il talento, che comunque c’è, naturalmente, spiccano per la grandissima resistenza fisica e disciplina mentale. Magari possono avere poca fantasia, ma sono abituati a lavorare sodo. Nella maggior parte dei casi sono giocatori poco portati a leggere le situazioni in campo: semmai sono più inclini ad eseguire le istruzioni, cosa che fanno anche molto bene; però è difficile che escano dal seminato. I miei collaboratori russi attribuivano questo modo di essere al sistema scolastico, piuttosto rigido e poco portato ad invogliare i ragazzi a seguire un percorso individuale”.

Ripetersi è sempre una sfida ardua, ma anche nelle stagioni seguenti non le sono mancate le soddisfazioni.

“Vado estremamente fiero di aver partecipato con quel Cska a quattro finali di Eurolega consecutive, con un bilancio in pareggio: due vinte, due perse. Le sconfitte furono entrambe con il Panathinaikos, per un totale di soli quattro punti. Sono tutt’ora molto orgoglioso, credo che resterà qualcosa di irripetibile”.

La sfida personale con Obradovic?

“La rivalità tra Panathinaikos e Cska in quegli anni era molto sentita. Con Obradovic invece si tratta di una non rivalità: lui è semplicemente il più bravo di tutti e gli altri vanno a ruota. Io paradossalmente con le mie squadre, Virtus e Real, sono riuscito a vincere diverse partite contro le sue formazioni. Ma mai una finale, sia con la Nazionale (quella contro la sua Jugoslavia agli Europei 1997), che con il club. Per Zeljko ho tanto rispetto: ho studiato molto le sue squadre, ho preso spunti, come faccio anche con altri colleghi d’altra parte. Penso sia un maestro nel preparare la partita secca, davvero il migliore. Anche mia moglie me lo dice per prendermi in giro (risata). Con il Maccabi invece ho una storia bellissima: ho vinto spesso! Mi ricordo quando Pini Gershon mi batté con l’Olympiacos. Venne ad abbracciarmi, come per dire: ‘Finalmente!’. Non ho comunque mai vissuto la mia professione come un duello personale, è la squadra che vince. È più facile che tu riesca ad incasinare una situazione, una finale, che inventare una magia decisiva”.

Nel 2012 di nuovo a Mosca. È il suo secondo ritorno, dopo quello alla Virtus nel 1997. Qualche preoccupazione c’era?

“Sì, all’interno della società c’erano stati dei cambiamenti, ma io avevo voglia di tornare ad allenare in un posto che sentivo come casa. Ho certamente sottovalutato il fatto che non c’erano più i miei giocatori di un tempo: il gruppo era cambiato, a parte Khryapa e Vorontsevich. Nella lega Vtb facemmo molto bene, mi rimane la grande amarezza per la semifinale del 2014 di Eurolega a Milano, contro il Maccabi. Sono cose che comunque capitano: una volta vinci con il tiro da quattro, l’altra perdi perché a un tuo grande giocatore scivola il pallone. Dopo quella batosta fortissima avemmo una grande reazione, che forse passò un po’ inosservata, ma che personalmente apprezzai molto. Eravamo davvero distrutti da quella sconfitta, la delusione era enorme. Prima di partire per Milano avevamo già iniziato i playoff, ed eravamo sotto 0-2 contro il Lokomoitv Kuban. Quando tornammo vincemmo nove partite di fila e il titolo Vtb. Fu una prova di coesione e voglia di rifarsi. Sarebbe stato più facile mollare e pensare che tanto ormai la stagione era persa”.

Nel ritorno a Mosca, la sua strada si incrociò con quella di Milos Teodosic. Ci racconta qualcosa di lui?

È un giocatore geniale, che io paragono a Van Gogh. Ha un suo modo unico e personale di vedere la pallacanestro, la vita, il mondo. È una persona con cui mi sono scontrato, ma alla quale sono altrettanto affezionato. Ammiro il suo talento, ma mi spaventa la sua sregolatezza. Milos era introverso, ma vincere l’Eurolega l’ha sicuramente rasserenato. È consapevole che il suo modo di giocare lo rende molto affascinante, ma anche molto difficile da capire. Se è concentrato e se lo vuole può anche difendere bene, capisce il gioco, i ritmi alla perfezione. Certe volte il suo fisico non gli permetteva di fare tutto quello che avrebbe voluto. Capitava che si rabbuiasse, si chiudesse in se stesso. Da allenatore raramente sei sorpreso dall’esecuzione di un giocatore: lui invece mi sorprendeva spesso”.

Arrivato in Russia, lei completa il suo secondo Grande Slam. Julio Velasco, genio della panchina nel volley, sostiene che “quando uno vince molto, quello che deve fare dopo è vincere ancora per dimostrare di non essere finito”. Cosa ne pensa di questa affermazione?

“È una connotazione brutale del mestiere di allenatore, ma c’è sicuramente un fondo di verità. Ed è certamente un’uscita di autocoscienza. La maggior parte delle volte alleni delle formazioni fatte per vincere, quindi, come diceva ancora Velasco, ‘vincere è un sollievo, non più una soddisfazione’. In definitiva è la traduzione di un concetto che tutti condividiamo: più aspettative hai e più fatica fai a svolgere il tuo mestiere; tutti lavorano meglio con aspettative ridotte. Il grande Julio l’ha portato forse agli estremi, nel contempo ha aggiunto un’altra grande verità: nessuno ti può togliere quello che hai fatto”. 

Lei alla fine si è sempre misurato con aspettative altissime.

“Abbastanza, anche perché alla fine me le ponevo da solo. Tutta la mia vita professionale è legata a persone che hanno scommesso su di me, e tutto questo ti ‘obbliga’ a fare sempre bene per non deluderle. Obiettivi ambiziosi sono sempre stati parte della mia vita professionale e non solo; a volte è un peso difficile da portare, ma anche una bella sfida. Comunque, non ci si abitua mai, anzi con il tempo diventa sempre un po’ peggio. A volte la gente è più attirata morbosamente dal fallimento del favorito, che non dalla vittoria di chiunque altro. Adesso poi che i social media danno la possibilità a tutti di sfogare il proprio risentimento si legge di tutto”.

Nel corso della sua carriera in cosa pensa di essere migliorato di più?

I miei limiti sono sempre stati nel contenimento delle mie emozioni. Mi arrabbio se le cose non vengono fatte come si deve. Nel 1994, quando allenavo la Nazionale, chiesi alla Federazione di poter avere il supporto di uno psicologo dello sport. Volevo capire meglio i ragazzi che avevo. Arrivarono così il dottor Tommaso Biccardi e la dottoressa Anna Falco. Per me e per tutto il gruppo di lavoro fu un momento fondamentale per la comprensione del comportamento non tecnico dei giocatori; una rivelazione. Offrendoci nuove chiavi di lettura, ci guidarono nel relazionarci meglio con loro e tra di noi. Poi nel corso della carriera ho imparato molto, osservando altri allenatori, sulla gestione della partita: individuare i punti di forza della tua squadra, i punti deboli dell’avversario. Ho appreso tanto anche dai giocatori: il modo di vedere la partita del playmaker è talvolta illuminante. Nella mia esperienza Nba mi sto confrontando con un gioco molto diverso, più veloce. Ci sono più time out e bisogna diluire rotazioni e scelte su 48 minuti. Ho dovuto assimilare dinamiche differenti, imparando a modulare meglio i carichi di lavoro, scoprendo il valore del riposo. Magari non sono stato come Nikolic con i suoi celebri gradoni, ma ho comunque sempre considerato importante l’allenamento. Ogni anno, ogni giorno, cerco di fare un passo avanti. Quando ho cominciato ad allenare, gli unici punti di riferimento erano il mio tecnico delle giovanili Renato Vianello, che mi trasmise la passione della pallacanestro, e Tonino Zorzi, il capo allenatore della prima squadra. Ora il materiale a disposizione è illimitato tra video, clinic, internet. È complicato riuscire a sviluppare un proprio metodo, un sistema di gioco dovendo scegliere le informazioni che ritieni più adatte. Tuttavia, in assenza di questa selezione costruttiva il rischio è di una grande confusione. Un altro caposaldo sul quale bisogna concentrarsi è il metodo didattico: ci deve essere un punto di partenza e di arrivo. Se il lavoro non è strutturato con un senso chiaro, il giocatore lo percepisce e si sente perso. È come essere a scuola: lo studente coglie al volo se l’insegnante ha o meno una presenza forte. Lo stesso vale nella pallacanestro: è un’impressione che resta, che spesso influisce sulla relazione umana. Capire se nel rapporto con il giocatore devi spingere o tirare il freno, è cruciale”.

La sua lunga esperienza in Russia ha coinciso con l’inizio del declino del basket italiano: è una situazione reversibile? Dipende quasi esclusivamente dall’aspetto economico?

“Ad alto livello gli ingenti investimenti sono qualcosa di ineluttabile. Basta vedere le squadre che arrivano alle Final Four: sono sempre le stesse 4 o 5. Nel calcio, il titolo del Leicester ha colpito l’immaginazione di tutti perché era la favola che mancava, che ciascuno desiderava. Ormai il budget è diventa una considerazione comune. Si sente spesso dire: ‘Abbiamo vinto contro un club che ha un budget di molto superiore al nostro’. Per quel che mi riguarda non ho mai fatto riferimento a questioni economiche: vai in campo con la squadra che hai e comunque devi provare a competere. Certo, dentro di te pensi che ti piacerebbe avere un giocatore in più, o uno più forte. Però è contrario al senso dello sport quello di ragionare sempre con i numeri. Purtroppo nella situazione attuale il budget è il concetto dominante. E a me questo non piace molto”. 

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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 80-91

Giulia Arturi

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