“Benetton. Così cambia il colore della vittoria”
Messina torna in Veneto, da dove era partito per la sua carriera di professionista, e ritrova un ambiente familiare: è la chiave del successo. Si da ad alto rischio, ma vinta al primo colpo: tenere nella Marca lo scudetto di D’Antoni. Edney, Pittis e Nicola i giocatori base del progetto
United Colors Of Benetton. Il celebre slogan dell’azienda trevigiana racconta un po’ della nuova avventura di Ettore Messina. Nell’estate del 2002, dopo 19 anni di bianconero e di una spruzzata di azzurro, cambiano i “Colors” della maglietta: il verde inizia a brillare. Una delle situazioni ambientali ricorrenti nella carriera di coach Messina non perde vividezza nel trasferimento in una nuova città: l’atmosfera familiare, ideale per lavorare condividendo gli intenti. E Treviso è proprio questo, un piccolo mondo “United”. Il merito è in primo luogo della famiglia Benetton: vicina alla squadra, attenta e sollecita. Ecco fatto allora: alla lettera United Colors of Benetton.
Il coach, nel prepararsi per il trasferimento, non dimentica di mettere in valigia il “Manuale Segreto del Successo al Primo Colpo”. Lo scudetto della stagione 2002/03 è il suo quarto da capo allenatore. E pensare che il suo arrivo a Treviso sembrava essere una contraddizione tecnica: Ettore Messina che prende in mano la squadra campione in carica lasciata da Mike D’Antoni. Inutile negare che qualche dubbio di compatibilità ci sia stato. Ma un grande coach non si sente minacciato da qualcosa di diverso, bello e vincente ideato prima del suo arrivo. La vittoria non è un’affermazione personale che passa dalla demolizione di una solida struttura, solo perché edificata con uno stile diverso. La bravura consiste nel studiarne le fondamenta, trovare i muri portanti, e poi capire dove rinforzare, migliorare, arricchire. È proprio ciò che coach Messina ha fatto, con orgoglio. In fondo il mestiere dell’allenatore è in un certo senso contraddittorio di suo. “Il coach insegna a un gruppo di persone ad autodisciplinarsi: saper rinunciare ad un tiro per concederlo a qualcuno in una posizione migliore. Il risultato deve essere una combinazione, quasi paradossale ma efficiente, di altruismo ed egoismo sportivo”, spiega coach Messina. E non è l’unica ambiguità: “Altrettanto complicato per un allenatore è il compito di trasformare ragionamenti in istinti. Eseguire milioni di volte in allenamento, così che un gesto e una scelta siano talmente istintivi che non serve pensarci”.
Finita l’esperienza bolognese, nel 2002, il trasferimento a Treviso. Aveva qualche altra soluzione? Come mai accettò la sfida?
“A qualche giornata dalla fine del campionato ci furono i primi contatti: si sapeva che Mike D’Antoni sarebbe andato via. Inizialmente ero molto preoccupato: per Treviso ero un nemico storico, sia come mestrino sia come virtussino. Inoltre quella stagione avevano giocato una pallacanestro bellissima, vincendo lo scudetto e io non ero sicuro di essere l’allenatore adatto per loro. Ma il gm Maurizio Gherardini, il presidente Giorgio Buzzavo e il signor Benetton, della famiglia proprietaria, mi accolsero con un entusiasmo incredibile. Chiesi degli inserimenti e feci qualche aggiustamento per bilanciare la squadra in modo un po’ diverso, per provare a rifare una buona stagione anche in Eurolega. Tutto lo staff e i giocatori dimostrarono grande disponibilità e rispetto, fu facile trovare presto l’intesa”.
Tornare in Veneto la mise a suo agio?
“Mi definisco un po’ apolide. Sono nato a Catania, cresciuto a Mestre, ho trascorso gran parte delle mie giornate in gioventù a Venezia, poi ho vissuto vent’anni a Bologna. Sento di avere delle radici dappertutto; ad esempio sono profondamente legato anche a Mosca per certi aspetti: affetti, sensazioni, odori, ricordi. Mi sento italiano, più che veneto o siciliano. Treviso per me rappresentava di gran lunga la migliore opportunità a disposizione. In particolare, ero affascinato dalla Ghirada, la cittadella dello sport del gruppo Benetton, e dall’organizzazione societaria, di cui tutti parlavano: un incrocio tra un college americano e una squadra professionistica. Mi stimolava l’idea di scoprire un mondo diverso dal mio e non rimasi deluso. Sembra un discorso retorico quando si parla di un ambiente come una famiglia, ma fu proprio quello che trovai: le cene dopo le partite, una presenza calda della proprietà. La famiglia Benetton era davvero vicina alla squadra con interesse, passione e affetto. Poi c’era Giorgio Buzzavo, che interpretava il ruolo del ‘cattivo’ della compagnia: doveva mantenere una disciplina interna, fondamentale secondo lui per portare a termine il progetto. Insostituibile anche il ds Andrea Cirelli, che si faceva in otto per stare dietro ad ogni cosa. Ma questo spirito positivo era condiviso da tutto lo staff, dal back office agli allenatori delle giovanili. Su tutti naturalmente il general manager Maurizio Gherardini, personaggio chiave, il grande equilibratore fra ogni esigenza. Mia moglie ed io conserviamo ricordi preziosi dei nostri anni passati a Treviso”.
Nel suo lavoro l’interazione con la stampa è imprescindibile. Come sono stati i suoi rapporti?
“Ho avuto un ottimo rapporto con parecchi giornalisti, molto diretto e sincero. Invece l’atteggiamento di chi cerca costantemente qualcosa di occulto e dietrologico per giustificare scelte o decisioni mi ha sempre infastidito e spinto a mettermi sulla difensiva. Nel campo dei rapporti con i media, l’America è un altro mondo, al punto che una delle prime cose che viene insegnata ai giocatori è come interfacciarsi con i giornalisti: la massima disponibilità è obbligatoria. Inoltre qui non esiste l’analisi psicologica dell’andamento della partita, delle scelte. Trovo insopportabile l’uso spasmodico dei social media. È inammissibile che persone, nascoste dietro l’anonimato, si scatenino denigrando con le infamie peggiori i giocatori per le partite perse o gli allenatori per gli errori commessi. È veramente una barbarie: non accetto questa deriva”.
Ad un certo punto della sua carriera, seguendo le orme dei vari Mangano, Bianchini, Peterson, Guerrieri, anche lei veste i panni del giornalista e inizia a scrivere per il Corriere della Sera. Come si sentiva in questo ruolo?
“Ho pensato che fosse difficilissimo. Ho scritto di pallacanestro, ma non ho la penna facile. Mi sono reso conto di quanto debbano essere celeri i giornalisti nel raccontare l’evento. Poi mi ha colpito molto la lucidità nel sapere da dove partire nell’articolo e dove arrivare. Penso di essermela cavata bene, alla fine. Rileggendo ciò che ho scritto mi è sembrato di aver fatto un lavoro organico. Ho sempre seguito un utile consiglio: inserire una o due idee da sviluppare, senza disperdersi. Su questo versante, ho fatto l’opinionista durante le telecronache per le Olimpiadi e i Mondiali. Un’esperienza che mi ha molto divertito, dove l’aspetto più difficile è coinvolgere tutti i telespettatori, non soltanto gli addetti ai lavori”.
Via via, il ragazzo prodigio diventa un giovane uomo, poi un quarantenne, poi… Come si è accorto che passavano gli anni?
“Ragionando con mio figlio piccolo mi ha colpito realizzare che quando mio papà aveva i miei 58 anni di adesso, era già nonno: io ne avevo 28 e una fi glia. Ora mi ritrovo di nuovo padre di un figlio di 13... Penso che tutti noi, a qualche livello, ci sentiamo ancora bambini o ragazzi. Facciamo fatica ad accettare che gli altri ci vedano come in realtà siamo. Nella mia testa di giovane allenatore, per esempio, Dan Peterson mi aveva accompagnato per tantissimi anni. Mi è rimasta l’impressione che abbia avuto una carriera lunghissima, piena di successi, di una presenza importante. Poi un giorno, leggendo un articolo su di lui, mi sono reso improvvisamente conto che aveva allenato in Italia solo 15 anni e smesso molto presto. Ho visto le cose all’improvviso sotto un’altra prospettiva: ‘Caspita, sono tanti anni che alleno, sarà giusto continuare?’. Ogni tanto mi faccio queste domande”.
Torniamo al campo. Di nuovo fece centro al suo primo anno riportando a Treviso lo scudetto 2002/03. Come rivive quella stagione?
“Fu formidabile riuscire a vincere il campionato: il back to back è impegnativo. La squadra era un po’ cambiata, ma trovò subito un’intesa, grazie anche a veterani di altissimo livello. In stagione regolare perdemmo poche partite e poi vincemmo in finale contro la Fortitudo. La prima volta che andammo a Bologna a giocare, durante il tiro della mattina, vidi Marcelo Nicola che continuava a ridere. ‘Cos’hai?’, gli chiesi. Penso che stasera ci sarà qualcuno più bersagliato di me dal pubblico!’ mi rispose. Come mi vedevo con una maglietta verde addosso? All’inizio mi sentivo proprio strano. Ma a Treviso furono generosi e di ampie vedute: piano piano, mi hanno accolto, facendomi sentire di casa. Ho scoperto un nuovo mondo e stretto delle amicizie che durano ancora oggi”.
Quali furono i giocatori chiave di questa impresa?
“Tyus Edney aveva accanto Riccardo Pittis e Marcelo Nicola che facevano i playmaker aggiunti, consentendogli di spaziare. Furono fondamentali per gli equilibri e avevano una capacità di sopportare la tensione e il dolore fisico fuori dal normale. In molti credevano che Tyus avesse una sola velocità, che pensasse poco, ma in realtà capiva benissimo il gioco; aveva solo bisogno di spazi e ritmi per esprimere la pallacanestro a lui più congeniale. La sfida era trovare la quadratura giusta, combinando giocatori come Bulleri, Marconato, Garbajosa, Langdon. Ad esempio Langdon era molto diverso da Edney: era importante metterlo nelle condizioni di tirare. In conclusione però la squadra era estremamente matura, con l’aggiunta decisiva di un giovane Bulleri: aveva un’energia incredibile e giocò una stagione favolosa”.
Possiamo dire che è tra le soddisfazioni più grandi della sua carriera?
“Dal punto di vista dei trofei vinti, le stagioni più belle sono i due Grandi Slam, quello del 2001 con la Virtus e quello del 2006 con il Cska. Ma sono legatissimo dal punto di vista umano e professionale alla mia prima stagione a Treviso. Vincemmo tutto in Italia e arrivammo in finalissima di Eurolega perdendo a Barcellona contro il Barcellona. Mi trovavo ad allenare una squadra che, nell’immaginario collettivo, non avrei mai potuto guidare. Era quella di Mike D’Antoni, che giocava alla sua inconfondibile maniera, che aveva appena vinto lo scudetto. Ci venimmo incontro reciprocamente, io e i giocatori: diventammo più solidi in difesa, ma senza perdere quel bellissimo stile d’attacco imperniato su Edney. Confermarsi al top non è mai facile, ed aver aiutato il gruppo a rivincere il titolo e raggiungere la finale di Eurolega è dal punto di vista tecnico e professionale fra i ricordi più preziosi. È una delle squadre di cui vado più orgoglioso, perché riuscimmo a trovare un modo di giocare, un’identità, che faceva contenti tutti. Come fu possibile? Le persone non si limitavano ad eseguire, ma ci mettevano del loro”.
A tal proposito, a suo tempo ha affermato che cerca giocatori che trasmettono emozioni. Cosa significa?
“È vero. E non è una questione legata necessariamente al talento. Ho trovato ragazzi che ti davano emozioni tra i cadetti, come in serie A: gente che ci mette l’anima, che trasmette passione. Se poi a tutto questo si aggiunge anche il talento, allora si raggiunge il massimo, non solo per il giocatore, ma anche per la squadra. Poi ogni tanto, come in tutti gli ambienti di lavoro, capita di trovarsi in una situazione piatta, dove ognuno esegue il compito, senza aggiungere altro. Non è salutare: ci devono essere discussione, interazione, contrasto. Ai tempi del liceo fui conquistato dal motto del filosofo Eraclito: ‘Dal conflitto nasce unità’. Sono d’accordo: quando ci si limita a fare quanto richiesto, in modo acritico, c’è qualcosa che non va. È sempre meglio aprire un dibattito, magari scontrarsi, per giungere a una soluzione condivisa e soprattutto rispettata. Lo scetticismo in una squadra è una malattia contagiosa, ed è estremamente pericoloso. Il giocatore che scuote la testa per mostrare al mondo quanto è dispiaciuto per come stanno andando le cose, evidenziando la sua impotenza di fronte all’ineluttabile, è un’esternazione ad uso e consumo di quelli che guardano: non la tollero. Le mie più grandi arrabbiature derivano proprio dalla mia incapacità di passare sopra a queste situazioni, di fingere di non vedere. Che poi è una grandissima dote, in realtà. Come mi raccontava Cosic, il severissimo prof. Aza Nikolic era un maestro. Proibiva alla squadra di bere la birra, per esempio, e, quando qualche giocatore trasgrediva, si girava dall’altra parte a fumare la sua ennesima sigaretta. È una delle tante declinazioni del famoso concetto ‘combatti le battaglie che puoi vincere’. Probabilmente chi è capace è più bravo e vive un po’ meglio, io non sono ai livelli del professor Nikolic in questo senso. Mi ha anche colpito un concetto di Phil Jackson, che ho fatto mio. Riguarda il lasciar sbagliare. In partite che poteva controllare, spiegava il grande Phil, evitava di chiamare minuto quando la squadra sbandava, ma aspettava di vedere chi lo avrebbe aiutato a venire fuori dalle difficoltà. Teoricamente dopo qualche errore, il coach chiede time out e prova ad aggiustare le cose. Jackson ribaltava questo concetto. Andiamo sotto di dieci? Vediamo chi reagisce. È utile perché quando arrivano i problemi veri è il giocatore in campo che deve essere capace di risolverli. Non serve girarsi a guardare la panchina, come in attesa di una risposta. Sì, l’allenatore può dare un canovaccio, ma l’interprete è chi scende sul parquet”.
Le due stagioni successive allo scudetto, 2003/04 e 2004/05, furono più difficili?
“Quelli successivi furono anni di cambiamento: nel 2003 andò via Trajan Langdon, un giocatore che, arrivato a Mosca, feci di tutto per riprendere; una solidità e allenabilità rare. Mancammo l’accesso alle Final Four all’ultima giornata, dopo aver disputato una grande Top 16: il Panhatinaikos, già eliminato, avanti di 15 alla fine del primo tempo, perdette clamorosamente in casa contro Siena. E noi rimanemmo fuori per differenza canestri. La stagione 2004/05, la mia ultima a Treviso, rinnovammo completamente: niente Nicola, Garbajosa, Edney, la squadra era affidata a Bulleri. Vincemmo la Coppa Italia e concludemmo la stagione regolare al primo posto. In Eurolega furono inaugurati i playoff, e nella prima partita in casa contro il Tau ci sciogliemmo, perdendo largamente. In campionato ci incartammo contro Milano: sconfitti in casa in una partita che ci vedeva favoriti e uscimmo 3-2. Era il primo anno di Andrea Bargnani, molto giovane. Alla fine di quella stagione la società cedette il mio contratto al Cska, che aveva contattato Maurizio Gherardini”.
In conclusione, come definisce un gruppo di lavoro nel basket?
“Io dissento dalla metafora della squadra come orchestra. È sbagliata: l’orchestra suona uno spartito già scritto, secondo i sentimenti del suo direttore. L’allenatore di pallacanestro può fornire un canovaccio che deve essere interpretato dai giocatori sulla base di un’autodisciplina sufficiente a capire quando è il momento per di fare un assolo, o quando bisogna suonare assieme. Il tutto assomiglia a una jam session più che a un concerto. Trovare persone che condividono questo modo di vedere lo sport, per quanto mi riguarda, è più bello e gratificante. Ed è qualcosa di indipendente dal talento. Si può ritrovare questa visione in squadra giovanili come in formazioni di alto livello”.
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 72-78