“Quell’irresistibile richiamo d’Italia”
A 33 anni, nel 1993, Messina lascia la Virtus e diventa uno dei più giovani ct azzurri della storia. “Il periodo della mia carriera in cui sono cresciuto di più dal punto di vista tecnico e personale”. Ma tutto sembra finire sul nascere: per fortuna, il presidente Petrucci respinge le dimissioni di Ettore dopo il fallimento del primo Europeo. E così nel 1997 arriva un grande argento. Quasi vent’anni dopo il ritorno, fra delusioni e grandi soddisfazioni
Il bianconero della Virtus e degli Spurs, il rosso del Cska, il verde di Treviso, il bianco di Madrid. I colori dei club di Messina riempiono lo spettro di una carriera di grande successo, ma l’azzurro è un’altra cosa. La Nazionale è un punto di approdo e la consacrazione di un percorso. Senza retorica, è un luogo dell’anima più che una squadra. Un crogiolo di passioni e sentimenti in cui ci si deve calare con le necessarie competenze, naturalmente, ma soprattutto con una forza d’animo speciale perché le aspettative e l’affetto generali fungono da moltiplicatori di ansie. Nessuno può sfuggire al fascino della maglia azzurra: il top per tutti quelli che fanno dello sport il punto centrale della loro vita. Ettore Messina vi arriva una volta di più giovanissimo, entrando nel novero di personaggi che hanno scritto la storia del nostro basket: da Tracuzzi a Paratore, da Primo a Gamba, da Bianchini a Tanjevic, da Recalcati a Meo Sacchetti. E scrive altri capitoli indimenticabili.
A soli 33 anni approda alla guida della Nazionale. Fu un impatto duro.
“Accettai l’incarico di ct con entusiasmo, mi innamorai dell’idea. Ero motivato dalla convinzione che ci fossero i presupposti per fare bene. La mia avventura in azzurro iniziò con la vittoria ai Giochi del Mediterraneo, mentre agli Europei a Karlsruhe non riuscimmo ad essere abbastanza squadra e andò male, nonostante fossimo partiti con grandi motivazioni. In quel momento avevamo delle Nazionali giovanili validissime, soprattutto l’under 22, dove c’erano giocatori come Fucka, Bonora, Moretti, De Pol. Ai veterani iniziava a pesare l’impegno in azzurro, così si aprì un nuovo ciclo. Andammo ai Goodwill Games con una squadra molto giovane e rinnovata, con il decano Carera a fare da chioccia. Arrivarono delle buone prestazioni, nonostante il pesante scetticismo che percepivamo attorno a noi. In quel periodo non c’era idillio con la stampa: per esempio, preferivo che gli allenamenti fossero a porte chiuse e i giornalisti non la presero benissimo. In realtà pagavo il peccato originale di aver preso il posto dell’amatissimo Sandro Gamba, nonostante fossi una sorta di suo figlio, dal punto di vista tecnico-sportivo”.
Come mise in atto il cambiamento?
“C’era bisogno di un rinnovamento, e Petrucci, insieme a tutta la Federazione, mi diedero un grande sostegno. Perdemmo grandi nomi, come Rusconi e Nando Gentile, che però non rientravano appieno nella visione del gruppo che avevo in mente di creare. C’era una serie di giocatori, come Fucka ad esempio, che andava valorizzata. Un altro punto chiave fu l’avviamento, con il professor Grandi, di un programma per migliorare la condizione fisica dei nostri ragazzi. Su quel versante in Italia eravamo ancora carenti: si curavano poco il potenziamento e la preparazione atletica. Andammo in giro per le società a parlare con i preparatori e con i colleghi allenatori e a svolgere dei test per verificare la condizione fisica dei ragazzi. Risultato: tutto il mondo ‘incazzato’… Nello stesso tempo a novembre, con il sostegno del Coni, cominciammo a portare per tre inverni di seguito l’under 20 a giocare con i piccoli college in America, per fare esperienza. Tanti di questi giocatori poi arrivarono fino alla Nazionale maggiore. Insomma, si mise in moto un bel movimento.”
E veniamo all’Europeo del 1995.
“Il processo di sviluppo continuò fin lì. Facemmo un eccellente torneo: arrivammo quinti, con la soddisfazione di aver battuto formazioni come la Spagna e la Russia. Per altro, quando disputammo la finale per il quinto posto con la Spagna eravamo tutti convinti che valesse il pass per le Olimpiadi poiché c’era in atto l’embargo per la Jugoslavia, a causa della guerra nei Balcani. Poi invece un escamotage della Fiba consentì alla squadra jugoslava di partecipare ai Giochi e noi rimanemmo a casa. Tuttavia, le cose si stavano mettendo bene”.
Nel frattempo lo scetticismo generale cominciava ad attenuarsi, anche perché arrivò l’argento europeo del 1997.
“Piano, piano il clima attorno a noi migliorò. Sino a quando all’Europeo di Barcellona perdemmo solo la finalissima con la Jugoslavia, arrivando secondi. Con una formazione che aveva come playmaker titolare un giovanissimo Davide Bonora, pivot Denis Marconato, allora 22 anni, poi Fucka, Galanda: l’ossatura della squadra che nel 1999 vinse l’oro. Qualcuno di loro arriverà fino all’argento olimpico di Atene con Recalcati. Non intendo certo prendermi alcun tipo di merito, che deve piuttosto andare ai vari Mario Blasone, Giovanni Piccin, Roberto Di Lorenzo, Guido Saibene, che in quei tempi avevano allenato il settore giovanile della Federazione. Diciamo che io ho fatto un po’ quello che era capitato, a suo tempo, nel calcio al ct Vicini, con la cosiddetta “banda Vialli”: i miei giovani erano talmente bravi che era obbligatorio trovargli un posto. L’ho fatto gradualmente. Li vedi, li alleni e ti rendi conto che sono giocatori di prospettiva europea, con etica del lavoro, capaci di sopportare lunghi periodi di ritiro. E così si formò un nucleo che ha dato soddisfazioni al basket italiano per tanti anni”.
È stato il più giovane ct della storia del basket italiano, dai tempi di Tracuzzi nei primi anni '50: com’era stata accolta la sua investitura?
“Non è stato facile. Fondamentale senza dubbio fu l’enorme sostegno di Petrucci, presidente federale. A Karlsruhe diedi le dimissioni sul campo, dopo l’ultima sconfitta di quel nefasto campionato europeo. ‘Presidente - gli dissi - ci siamo sbagliati, dopo queste prestazioni non posso continuare solo perché ho un contratto’. Ma lui mi rispose: ‘Non se ne parla neanche’. Io ero molto serio, lo dimostrano altri episodi della mia carriera, come a Madrid e Mosca: non ho mai avuto la necessità di stare attaccato alla sedia. Può persino sembrare velleitario, ma è semplicemente un mio modo di pensare, il mio carattere”.
Dal club alla Nazionale: è anche un cambio di vita. Come l’ha affrontato?
“Intanto anche allora c’erano le famose “finestre” di attività delle nazionali nel calendario: una a novembre e una a gennaio. Io durante l’inverno allenavo anche l’under 22, quindi periodi in cui lavoravo in palestra ne avevo parecchi. Furono anni stupendi perché mi permisero di andare a vedere moltissimi colleghi allenare in giro per l’Italia, l’Europa e anche gli Stati Uniti. Da Bianchini a Scariolo, da Phil Jackson a Ivkovic, e molti altri. In particolare, ho trascorso tanto tempo con Dean Smith, il guru di North Carolina: un vero personaggio di classe, in campo e fuori; da lui ho imparato molto. Mi ha sempre interessato assistere agli allenamenti, più che alle partite. Si possono apprezzare le correzioni, capire come un coach tiene in mano la squadra, come si comporta con i giocatori: mi sono arricchito. Dal punto di vista formativo è stato il periodo più fecondo della mia vita: quattro anni di crescita anche come persona”.
E invece come maturò la decisione di lasciare la guida della Nazionale?
“Me ne convinsi nel febbraio del 1997. Dopo quattro anni pensavo che il ciclo stava arrivando ad una conclusione. Ero convinto che avremmo disputato un buon Europeo, non certo che saremmo arrivati a festeggiare una medaglia d’argento. Facevo una serie di considerazioni: sapevo di avere in mano una squadra per andare bene; due anni prima eravamo arrivati al quinto posto e i ragazzi erano cresciuti. Ma c’è sempre una componente di imprevedibilità, un infortunio per esempio, e tutto può cambiare. Poteva anche succedere di mancare la qualificazione al Mondiale, e io non volevo avere un contratto garantito a tutti i costi: era tempo di tornare ad allenare un club. Rinunciai dunque ad un rinnovo la con la Nazionale, senza avere nessuna alternativa a portata di mano. Analizzata con il senno di poi, fu una decisione forse imprudente, ma era ciò che sentivo. Poi a maggio, come abbiamo già raccontato, arrivò l’offerta della Virtus”.
Lasciare a casa dei giocatori è una componente del lavoro del ct. Quanto costa? A tal proposito, come andò con Mario Boni?
“Umanamente è davvero tremendo tagliare i giocatori. Ma alla fine qualcuno deve restare a casa, fa parte del tuo mestiere; sono sempre decisioni difficili, e mai giuste al 100%. Prima dei Giochi del Mediterraneo di Montpellier e degli Europei di Karlsruhe, Mario Boni fu il mio ultimo taglio. Ritenevo che un giocatore così ‘ruspante’ avrebbe faticato con pochi minuti a disposizione. Alla fine mi sono pentito: sicuramente aveva la personalità per ribellarsi al naufragio, avrebbe lottato. Avevo sbagliato e lo dissi sia in pubblico sia a Mario individualmente. Avrei dovuto portarlo, lo ritengo una persona vera. Mi ricordo che quando annunciai all’ultimo allenamento nello spogliatoio di Folgaria la mia decisione, lui ne fu distrutto. Letteralmente andò a lungo a vagare fra i boschi”.
Tornando alla sua prima esperienza alla guida degli azzurri, cosa non ha funzionato dal punto di vista tecnico?
“Con la prima Nazionale non siamo riusciti a stabilire delle gerarchie chiare, mentre la squadra del '97 era più definita. Le prime punte erano Myers e Fucka, poi c’era un giocatore di raccordo fantastico come Riccardo Pittis, due playmaker che si dividevano bene i compiti perché erano diversi ma allo stesso tempo complementari, come Coldebella e Bonora, e poi un pivot moderno, Marconato. Era una squadra sicuramente più versatile. Poi, nel '93, nella mia ansia giovanile di rinnovare, non presi in considerazione l’idea di chiedere a Roberto Brunamonti il sacrificio, alla sua età, di passare un’altra estate in Nazionale. Invece avrei dovuto, sarebbe stata una presenza fondamentale, e probabilmente lui sarebbe riuscito a dare una mano a far quadrare i conti soprattutto sotto il profilo della ‘chimica’. Ma mi sono rifatto: gliel’ho chiesto a distanza di vent’anni!”.
Ma in quel magico Europeo del 1997, si aspettava di arrivare imbattuto in finale?
“No, assolutamente. Ci furono ben due gironi interlocutori e nel secondo vincemmo molto bene contro la Spagna padrona di casa, caricata di grandi aspettative. Fu una manifestazione stupenda: una serie di vittorie tra cui quella contro la Turchia nei quarti e quella contro la Russia in semifinale. La Jugoslavia, nella partita per l’oro, giocò con una determinazione agonistica pazzesca. E noi non eravamo pronti a questo impatto. Chissà, forse inconsciamente eravamo già appagati di essere arrivati alla finale. Ci mancò l’istinto del killer, di spingerci ancora più in là. Secondo me i risultati della Nazionale sono fondamentali: la gente vuole vedere l’Italia giocare bene e vincere le partite. Sinceramente credo che abbia un potere speciale, l’ho vissuto sulla mia pelle: un risultato positivo in azzurro offre un ritorno e una visibilità incredibili a chi vi ha contribuito. Una cosa simile in altri Paesi, per esempio Russia e Israele, succede anche a squadre di club come Cska e Maccabi, che rappresentano in giro per il mondo l’identità nazionale”.
A Madrid, e lo vedremo più avanti, l’avevano ingiustamente accusata di aver lasciato macerie dietro di lei. Al contrario, ogni suo passaggio è risultato molto fertile per la semina di chi è venuto dopo. È orgoglioso di questo?
“È importante lasciare qualcosa per il futuro, credo valga per qualsiasi lavoro. Tra chi occupa incarichi dirigenziali, quelli scarsi lasciano terra bruciata, perché hanno succhiato le energie di chi c’era già; i normali ottengono i loro risultati e non lasciano traccia, i loro successori devono implementare il lavoro da capo; quelli veramente bravi trasmettono qualcosa: due o tre giovani pronti ad assumersi responsabilità, una modalità di lavoro ben definita, la capacità di ammettere i propri errori. E un’uscita così vale più di un trofeo o una vittoria. È eccezionale lasciare un legame con le persone, la consapevolezza di aver ricevuto e dato, contribuendo alla loro crescita. Sono ricordi che restano. Come esseri umani non si può desiderare di più. Alla fine, non è solamente questione di accumulare vittorie e trofei: ciò che conta è l’impronta che rimane nelle persone con cui hai lavorato. Questo è veramente significativo per me”.
Nell’estate del 2016 torna sulla panchina dell’Italia. Aveva mai ipotizzato di farlo? Che preoccupazioni aveva?
“Sinceramente non l’avrei mai pensato, ma quando Petrucci mi chiamò, non ci pensai molto. Andai a parlare con Popovich e Buford, che di fronte a queste richieste sono sempre entusiasti: più esperienze accumula lo staff a livello internazionale, più può aiutare il club nello scouting e nelle relazioni. Con il loro via libera ho accettato di andare a fare il Preolimpico. Le preoccupazioni semmai erano di carattere tecnico e di integrazione. Sapevo che avrei avuto pochissimo tempo a disposizione, ma ero convinto delle possibilità di fare bene e quindi di andare alle Olimpiadi. È stata per tutti una grandissima delusione, soprattutto per quelli che ci hanno seguito sperando in un risultato positivo”.
Come si spiega in termini tecnici la sconfitta al Preolimpico di Torino?
“Ovviamente se tornassi indietro qualcosa di diverso la farei, questo è un punto di partenza importante. Ma abbiamo perso la partita chiave dopo un tempo supplementare: può anche essere che in caso di vittoria saremmo diventati dei fenomeni, che la percezione sarebbe stata ribaltata. Perché se quel gruppo di ragazzi, che nella loro carriera in azzurro sono stati criticati per non essere riusciti a sfruttare il loro talento, fosse andato alle Olimpiadi sono convinto avrebbe fatto bene. Detto questo, avrei sicuramente cambiato qualche piccolo dettaglio forse nella squadra, forse nelle rotazioni, forse nelle scelte della specifica partita. Del resto, anche dopo una vittoria ripensi a tutte le cose che avresti voluto fare diversamente, figuriamoci quando si perde”.
C’era un grande desiderio di riscatto nella ripartenza l’estate scorsa agli Europei?
“Non direi. Piuttosto ho meditato a lungo tra agosto e settembre. Mi sono detto: ‘Con che faccia mi ripresento dopo aver guidato questa squadra nella delusione del Preolimpico?’. Dopo di che, come poche altre volte sono riuscito a fare nella mia vita, ho anche pensato: ‘Ma perché bisogna buttare via tutto? Con questo gruppo di persone ho lavorato con piacere, in modo costruttivo’. E quindi ho deciso di fare anche l’Europeo, che per me sarebbe stata anche l’ultima tappa, a causa del nuovo calendario Fiba. Mi sono trovato ancora meglio con i giocatori e con tutto lo staff: dai medici ai fisioterapisti, dagli assistenti ai dirigenti delle Federazione, e mi ha fatto poi un grandissimo piacere che ci fosse Roberto Brunamonti. Ho passato un’estate molto piena dal punto di vista umano, prima ancora che tecnico. E anche sul campo ci siamo divertiti, con una squadra che lamentava assenze importanti, in primis quella di Gallinari, ma che alla fine se l’è giocata”.
Può fare un confronto sui cambiamenti generazionali e di contesto fra le sue due epoche azzurre?
“Ci sono delle forti diversità. I giocatori moderni devono essere atleti molto più corazzati, sono sottoposti ad un’esposizione enorme. Le aspettative, il giudizio, la visibilità in tanti casi comportano purtroppo un istinto a proteggersi, piuttosto che una spinta ad andare avanti, a stare con allenatori e compagni, e a capire che sono i loro i giudizi che contano veramente. Altra differenza: prima esisteva il cartellino e il giocatore era ‘proprietà’ del club. C’era chi aveva un grande senso di responsabilità, ma in altri casi la situazione poteva portare all’estremo opposto: ‘Mi metto comodo, tanto se non vado bene mi manderanno da un’altra parte’. Adesso invece, se alla fine del contratto un giocatore non ha dimostrato quello che vale, avrà meno occasioni. Teoricamente il senso di responsabilità individuale dovrebbe essere più forte. Altra questione: in molti casi si creava un forte rapporto allenatore-giocatore, soprattutto quando un tecnico ti aveva seguito per tanto tempo da diventare un sicuro punto di riferimento. Adesso accade più raramente. Poi c’è una complessità dovuta al numero impressionante di personaggi che girano intorno alla squadra: il team manager, l’addetto stampa, il direttore sportivo, il direttore generale, il presidente. Il mio primo esempio di società è stato: Tonino Zorzi, allenatore e numero uno indiscusso, e Toni Lelli general manager di una proprietà che era Giancarlo Ligabue. Tre persone, tutto più semplice. Poi ho avuto la fortuna di allenare in una Federazione dove il mio riferimento era il presidente e in club dove ho avuto a che fare di volta in volta con Cazzola, Gilberto Benetton, Kuschenko. Sono modelli societari più facili nei quali mi ritrovo meglio. La continuità è un valore che oggi non viene tenuto in sufficiente considerazione”.Cosa ci racconta del suo rapporto con Petrucci, che l’ha chiamato giovanissimo alla guida degli azzurri e poi l’ha rivoluta una seconda volta?
“Non ci crederete, ma abbiamo iniziato a darci del tu solo verso la metà della preparazione agli ultimi Europei! Petrucci è una ‘macchina da guerra’: quando vuol raggiungere un obiettivo, che sia per la Federazione piuttosto che per la Nazionale, sa attuare una strategia per ottenerlo. Ha l’abilità di vedere l’insieme delle cose, e questa è una qualità molto importante. Inoltre sa perfettamente come gestire il rapporto presidente-allenatore. Nella sconfitta l’ho sempre visto trovare qualcosa di positivo, nella vittoria mira a restare equilibrato. Sa quando parlare con la squadra e cosa dire. Nei momenti negativi è sempre stato vicino a me e ai miei collaboratori. Ed è un aspetto fondamentale. Riesce a instaurare un buon rapporto con i giocatori ed è un dirigente che non considera la vittoria l’unico metro per giudicare chi sta lavorando per lui. Questa è una dote rara”.
La sua ultima Nazionale è stata in generale molto apprezzata perché comunque è riuscita a giocare delle ottime partite, al massimo delle possibilità.
“Dopo l’uscita di Gallinari, le prospettive sono cambiate. In particolare i ruoli di Melli (che entrò stabilmente in quintetto) e Datome. I ragazzi si sono ricompattati ed è merito loro: sono riusciti a creare una grande coesione e hanno affrontato con determinazione anche gli eventi negativi. Sembrerà una parola grossa, ma mi hanno emozionato. Sono stato bene con questo gruppo, in ogni momento: quando ho detto quello che pensavo, quando mi sono arrabbiato. Eravamo una squadra che dipendeva molto dal tiro, essendo mediamente piuttosto piccoli; abbiamo provato diverse situazioni che sono riuscite bene, i cambi difensivi per esempio. In definitiva un’esperienza positiva dal punto di vista umano, tecnico e tattico. Poi se avessimo battuto la Serbia, impresa piuttosto difficile perché erano grossi il doppio di noi, magari saremmo arrivati tra le prime quattro...”.
È più stimolante allenare una grande squadra piena di talenti che parte per vincere tutto o una formazione meno forte e con poche chance?
“Potessi scegliere, mi piacerebbe giocare contro una squadra di tutti infortunati, non tanto bravi, non tanto alti. Avete presente la scena del film ‘Tre uomini e una gamba’ quando Giovanni fa braccio di ferro con il bambino? (risata). Non mi piace fare la figura di quello solo contro tutti. Allo stesso tempo è umano essere a proprio agio quando si hanno minori aspettative. Per esempio, con una squadra teoricamente non troppo forte, ma che si aggrega e gioca bene, come la famosa Banda Bassotti di Peterson, e con la quale puoi andare oltre ogni più ragionevole previsione. Sono due situazioni completamente diverse, interessanti e intriganti, e faccio fatica a scegliere. Per me è importante che quello che dico viene ascoltato, quando i giocatori riflettono sui miei suggerimenti. Preferisco un atteggiamento di questo tipo che non una passiva assuefazione alle mie parole e alla mia presenza. Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, ogni tanto mi chiedo ‘Ma com’è che mi stanno ad ascoltare?’. Ho ancora questa sindrome che mi accompagna dal primo allenamento. In campo segui i giocatori, ti arrabbi, li correggi, li stimoli a fare meglio, ma c’è sempre una parte dentro di me che si domanda se sono credibile in quello che sto proponendo. Poi se parliamo di allenare squadre forti, togliamoci dalla testa che sia facile. Il discorso ‘con quei giocatori vincevo anche io’ è solo retorica fine a se stessa. Il lavoro è strutturato e complesso, la parte tecnica è forse la più scontata. La gestione del gruppo è più stimolante e insidiosa. Un giocatore capisce subito se sei preparato, e poi guarda come ti comporti: le regole valgono per tutti? Gli appunti li fai anche a quelli bravi? Ma non si può neanche diventare un sergente di ferro, ci vuole la giusta dose di flessibilità. Un atleta si preoccupa di come vengono amministrate le regole. Può accettare e capire che la star della squadra abbia qualche attenzione in più fuori dal campo. Ma vuole essere certo che il senso dello sforzo, della fatica, dell’applicazione viene richiesto proprio a tutti”.
Sul piano tecnico quali sono le differenze tra la squadra che ha vinto l’argento e le ultime due che ha allenato?
“È sempre difficile fare raffronti di questo tipo. Quella dell’argento era una squadra di dimensione internazionale: Marconato, Fucka, Galanda, Pittis. Magari non avevamo dei tiratori come Belinelli e Datome, però era un gruppo di peso e potenza internazionale, potevamo competere con tutti. Non subivamo sul piano fisico in nessuna posizione e il gioco si basava molto sui passaggi, i tagli, i blocchi: a quei tempi si usava molto meno il pick and roll. C’erano ancora i 30 secondi: potevamo tenere il pallone più a lungo, impegnando la difesa con una serie di blocchi. Ora con i 24 devi fare tutto più veloce, quindi parliamo proprio di due epoche diverse. Nel '97 condividevamo la palla, che girava molto e velocemente. In parte si è verificato anche con l’ultima mia Nazionale, e questo mi ha fatto molto piacere”.
Una domanda di carattere generale: cosa si prova a essere considerato un “guru” del basket italiano e non solo?
“Mentirei se dicessi che il rispetto non mi fa piacere. Ma stiamo sempre parlando di pallacanestro, di un gioco che ci fa passare un paio d’ore alla domenica a divertirci, ad arrabbiarci. Un mio carissimo amico ed ex compagno di scuola, oggi oncologo primario a Venezia e Mestre, per il quale provo una grandissima ammirazione, ai tempi dell’università mi diceva: ‘Ma spiegami un po’: com’è possibile passare tutto il pomeriggio in palestra a far sgambettare quattro bambini in mutande e per questo guadagnare anche dei soldi?’ Una frase che mi è rimasta impressa. E praticamente è quello che faccio ancora oggi: far sgambettare quattro bambinoni in mutande! (risata). Sono contento se un collega prende spunto da me o mi chiede un consiglio: scambiare idee e sapere di aver dato una mano ad altri è gratificante. Comunque tutto passa in fretta. Come diceva Dino Meneghin: ‘Ai monumenti fanno la cacca in testa i piccioni’. Una verità impietosa, ma profondamente vera”.
Ha qualche desiderio non ancora realizzato nella sua carriera, o un treno perso?
“Ho solo il rammarico di non essere andato mai alle Olimpiadi. Ai Goodwill Games ebbi un assaggio in piccolo di quello che potevano essere; ricordo che un giorno pranzai a fianco di Bubka, e un’altra volta di Morceli, il mezzofondista. Mi sarebbe piaciuto vivere in un villaggio olimpico. Ma so di aver avuto una fortuna incredibile. Ci sono tanti bravissimi colleghi che, avendo allenato squadre mediocri, non hanno mai avuto la soddisfazione di vincere un trofeo. E questo molte volte dipende dalle circostanze, dalle opportunità. Ogni tanto scherziamo a cena con Popovich, quando racconta: ‘Pensa che io vent’anni fa allenavo un piccolo college di Division II: se Larry Brown non mi avesse scelto come assistente, quando mai sarei arrivato ad allenare l’Nba, che allora guardavo solo in televisione?’. È così che succede”.
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 62-71