In alto stat Virtus
La scelta di tornare in Europa, in Italia, a Bologna. Per riportare una grande del nostro basket nel suo ambiente naturale: l’Eurolega. Obiettivo riuscito al primo colpo, con contorno di trofei assortiti. Ma il bello deve ancora venire…
Coach, due anni fa prende la decisione di tornare ad allenare sulla panchina di un club. Come matura questa scelta?
«Avevo appena rinnovato per tre anni con i Toronto Raptors, facendo anche delle considerazioni su un futuro all’interno dell’organizzazione, quando alla fine del campionato italiano 2020/2021 arrivò la chiamata da parte della Virtus Bologna, che voleva tornare in Eurolega. Da parte mia, dopo tre anni in cui avevo fatto tutto quello che mi proponevo di fare in NBA, ovvero imparare e, da assistente, concentrarmi solamente sull’analisi del gioco e dei giocatori, c’erano in me due sensazioni diverse: da un lato stavo molto bene nel mio ruolo ai Raptors, dall’altro ero consapevole di aver imparato tanto e, nei limiti delle cose riproducibili, avevo voglia di metterlo in pratica in una squadra mia».
La chiamata arriva dalla Virtus. Come sono avvenuti i primi contatti?
«La chiamata arrivò subito dopo la finale del campionato di Serie A. Io ero già rientrato in Spagna, a Marbella, perché non facemmo i playoff con i Raptors. Fu Paolo Ronci a contattarmi. In un paio di conversazioni telefoniche mi spiegò il progetto che avevano in mente e perché decidevano di cambiare, pur avendo vinto lo scudetto. Un paio di giorni dopo ci fu la prima, unica e, in pratica, definitiva riunione con Luca Baraldi e il presidente Massimo Zanetti. L’idea di provare di tornare in Eurolega e stabilizzarcisi rappresentava sia le ambizioni societarie, ancora molto scottate dall’eliminazione dell’anno prima in semifinale di Eurocup, sia la mia volontà di cimentarmi con questa competizione dopo averla vista per tre anni in tv».
Cosa l’ha colpita del progetto del club bianconero?
«Mi motivò particolarmente l’idea di tornare in una città in cui avevo vissuto molto bene, che trasuda pallacanestro, con i suoi pregi e i suoi difetti. E la volontà di crescere da parte della società, compiendo i passi in maniera sostenibile ma consistente e continua verso i vertici».
Per lei si tratta della seconda esperienza a Bologna dopo i ruggenti anni ’90 con la Fortitudo. Come ha ritrovato Basket City a distanza di tanto tempo?
«Apparentemente Bologna non è cambiata molto a livello di strutture, di centro storico, dove vivevo e dove vivo, e nemmeno di approccio alla pallacanestro. Purtroppo il grandissimo cambiamento è dato dalla caduta della Fortitudo, è questa la grande differenza rispetto ad allora, quando la contrapposizione tra i due centri di potere alimentava la necessità dell’uno di essere all’altezza dell’altro. I punti in comune però non mancano: una grande passione unita ad una certa competenza sul gioco, e poi la tendenza a far uscire voci assolutamente improponibili. Quest’ultima è sicuramente la cosa più spassosa, perché mai come a Bologna mi sono divertito a leggere, o ascoltare, racconti su vicende ipotetiche, movimenti di mercato o dinamiche interne alla squadra. Storie nel 95% dei casi assolutamente inventate, nel 4% gonfiate a dismisura o manipolate, e solo nell’1% vere. È una cosa che fa parte dell’identità della Bologna del basket, devi conoscerla per imparare a gestirla. Ma quando senti la famosa premessa “Radio Portici dice che…” poi arrivano sempre cose molto divertenti».
Appena arrivato conquista la Supercoppa Italiana, replicata poi nel 2022, tanto per iniziare.
«La Supercoppa è la terza competizione nazionale in ordine di importanza, però crea sempre un buon clima. Credo che sia più utile per chi la vince che non negativa per chi la perde, non portando grandi strascichi, ma chi la solleva ne trae molta fiducia e spinta positiva. L’edizione del 2021 fu un bellissimo evento a 16 squadre, una formula molto interessante che mi auguro possa essere ripetuta, compatibilmente con l’esigenza delle date, un’iniziativa originale con una sua utilità».
Fin da subito però, e sarà una costante di questi due anni, deve far fronte ad un numero elevato di infortuni, alcuni anche molto gravi.
«Proprio dalla Supercoppa 2021 il primo grande problema, che forse ci trasciniamo ancora oggi, è stato quello della perdita del pilastro difensivo sul quale avevamo costruito la squadra, Ekpe Udoh. Si fece male subito e saltò tutta la stagione, un colpo durissimo al nostro sistema: ci tolse un grande leader difensivo per mentalità, durezza e capacità comunicativa con i compagni. E’ stato l’anticamera dei tanti problemi che si sono susseguiti: Hervey, Mannion, Teodosic fuori due mesi, Cordinier, e poi Abass… Sono stati due anni tremendi a livello di infortuni, senza un filo comune tra l’uno e l’altro, e ci hanno obbligato a ridisegnare in diverse fasi l’idea di squadra. Compreso ovviamente l’innesto virtuoso di Daniel Hackett e Toko Shengelia, che rinforzò la mentalità vincente del gruppo».
La vittoria dell’EuroCup 2022 è la gemma della sua prima stagione bianconera. Che cavalcata è stata?
«Fu una grandissima liberazione per tutti. Io la vissi come ogni altra vittoria della mia carriera: una conquista, un’avventura finita con un bel trionfo. In società, in città e anche in alcuni elementi della squadra si percepì proprio il senso di liberazione da un peso, frutto del risultato sfortunato della stagione precedente. Vincere una coppa mai vinta da una squadra italiana e tornare in Eurolega dalla porta principale, è stato come levarsi un grosso macigno dalle spalle. La formula era impegnativa: una lunga regular season e poi l’eliminazione diretta ai playoff, che esponeva al rischio che una partita secca potesse vanificare il lavoro di una stagione. Il controllo mentale e il giocar bene la partita che conta sono stati fondamentali sia per l’equilibrio emotivo che tattico».
Cosa è mancato invece nella finale scudetto persa contro Milano?
«I playoff di EuroCup comportarono uno svuotamento di energie non solo fisiche ma anche mentali. Giocammo comunque un bel playoff nei quarti e nelle semifinali, oltre ad una finale piuttosto gagliarda tenuto conto del lumicino di energie che ci era rimasto. Giocammo la finale contro la grande favorita, che in Italia è il punto di riferimento per qualità del roster, allenatore, tradizione e mezzi a disposizione».
Quest’anno la formula dell’Eurolega da 34 partite era nuova per tutti. Qual è la sua opinione su questo format, e sull’ipotesi di un ulteriore allargamento?
«Siamo un po’ al limite con le date e con la disponibilità fisica dei giocatori. Credo che sia necessaria un’armonizzazione dei campionati, comprese le finestre FIBA, sulla quale si sta lavorando, ma non è stata ancora raggiunta un’intesa. Mantenendo questo format, faccio fatica ad immaginare un ulteriore allargamento delle partecipanti. Si possono trovare formule interessanti per arrivare ad un numero più alto di squadre, ma bisogna cambiare formula, anche perché la qualità si trova nella partecipazione dei giocatori importanti, che la gente vuol vedere».
In Italia la regola del 6+6, a differenza dell’Eurolega senza vincoli, impone una gestione diversa dei giocatori. Come ha impostato le rotazioni tra le due competizioni?
«Il 6+6 è forse il sistema più protezionistico di quelli in uso attualmente in Europa. La sensazione è che il giocatore italiano non lo utilizzi come potrebbe, sembra quasi si crei una comfort zone dalla quale tenda a non voler uscire, ovviamente con le dovute eccezioni. La necessità di avere sei italiani che possano stare in campo influisce nel momento in cui costruisci la squadra, il mio di giocatori locali, perché di solito sono quelli che sono in grado di creare un forte senso di appartenenza. Alla Virtus ho trovato qualche situazione pregressa, che ho accettato con piacere e sfruttato al meglio possibile, ma la cosa che fa veramente la differenza è poter contare su lunghi italiani, di modo da avere un numero elevato di esterni stranieri. Purtroppo quest’anno le partenze di Alibegovic e Tessitori, che avremmo confermato volentieri, hanno creato una situazione precaria, non avendo trovato nessuno che potesse compensare il loro addio: i giovani Menalo e Camara non sono ancora maturi. La mia idea è avere un quintetto di italiani, uno per ogni ruolo, che possa tenere il parquet, di cui due o tre essere anche nei dodici di Eurolega».
Causa infortuni in sequenza però non ha praticamente mai avuto tutti gli uomini a disposizione. Come giudica la stagione del ritorno della Virtus nella massima competizione continentale?
«In Eurolega l’impatto è stato molto duro, in campo e fuori. Lo scotto del noviziato ha portato ad un inizio piuttosto timoroso, viziato però dagli infortuni di Teodosic, Shengelia e Abass. Dopo qualche partita di approccio, abbiamo avuto un periodo centrale estremamente buono, tra fine dicembre e marzo abbiamo viaggiato a ritmi da quinto-sesto posto, con alcune grandi vittorie e un paio di sconfitte dovute a situazioni mal amministrate, vedi ad Atene col Panathinaikos e in casa con l’Olympiacos. Ma ciò è abbastanza connaturato allo status di debuttante. Poi purtroppo la parte finale è stata negativa, ma le assenze sono aumentate ulteriormente, fuori costantemente quattro-cinque giocatori, un peso insostenibile. E’ stata una competizione durissima dal punto di vista fisico, anche io stesso volevo testarmi nel disputarla, e mi sono trovato a mio agio tatticamente e nel susseguirsi delle partite. In questo gli anni in NBA mi avevano preparato, pur se l’importanza di ogni partita è diversa. Ma la gestione e la successione degli impegni è simile».
La Coppa Italia persa in finale con la Germani Brescia è invece un grande rimpianto?
«Ci tengo subito a precisare una cosa: quando sei il numero 2 del ranking e arrivi secondo, hai fatto il tuo dovere. E’ una cosa che, di partenza, non si dovrebbe mai dimenticare. Nello specifico però la finale era chiaramente alla nostra portata, noi eravamo i favoriti. Non abbiamo avuto il giusto approccio, la partita si è messa subito in salita e Teodosic non era in condizione di giocare. Quando abbiamo provato a rimontare, e ci siamo riusciti, abbiamo finito la benzina all’ultimo chilometro. Sicuramente una delusione, proveremo a rifarci l’anno prossimo».
In Italia Milano e Virtus sono le due indiscusse superpotenze, ma dietro qualcosa si muove. Come ha ritrovato la realtà italiana?
«Per prima cosa diciamo che accomunare Olimpia e Virtus è un gravissimo errore concettuale, frutto di un esercizio di superficialità valutativa: si tratta di due realtà completamente diverse per struttura e filosofia societaria, modo di giocare, mezzi a disposizione. Sono difficilmente accomunabili, se non per il fatto che, rispetto alle altre squadre italiane, godono di maggiori disponibilità. In Serie A ci sono molte realtà in crescita, vedi Tortona e Varese, alcune già stabilizzate ad alto livello come Venezia, Brescia e Sassari, altre ancora hanno ottime capacità di costruzione della squadra per poter colmare il gap che le separa da quelle che le precedono, penso a Brindisi e Pesaro».
Zanetti l’ha definita “l’allenatore quantomeno migliore d’Europa, se non del mondo”. Baraldi ha detto che anche nel 2023/24 la Virtus ripartirà da Sergio Scariolo. Lei cosa vede nel suo futuro?
«Sono molto grato per le manifestazioni di stima del presidente e del CEO. Cercherò di fare il possibile per ricambiarle. Il mio proposito è sempre lo stesso, ovunque: fare del mio meglio per far valutare positivamente il mio lavoro e quello della squadra».
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Giganti # 11 (maggio 2023) | Pagina 88-98