Qui Brescia, a voi mondo

Qui Brescia, a voi mondo

La rampa di lancio del giovane Scariolo, un predestinato al successo. I genitori, gli studi, gli amici di una vita, il tifo per l’Inter, la scoperta del basket. E il taglio da giocatore che lo dirotta molto presto sulla panchina. Poi quell’incontro decisivo col Barone Sales...

Brescia, anni ’60: bisogna fare un salto indietro nel tempo per scoprire le origini di Sergio Scariolo, ripensando a una città industriale in pieno fermento, che sta vivendo il boom economico. Torino, Milano, Genova a trainare l’economia del Nord Italia, e questo lembo di terra che divide il nord-est dal nord-ovest, dove c’è un grande fermento, a 360°. Sergio è un bambino vivace, curioso: gioca a calcio, pratica nuoto ed assieme ai suoi genitori, passa dall’appartamento in Vicolo Stazione a piazzale Cesare Battisti: sempre centro storico, ai bordi del ring, l’insieme di strade che fanno da perimetro alla città vecchia. Nel giro di amicizie nuove che Sergio instaura nel suo nuovo quartiere c’è quella con Marcello Forgiano, vicino di condominio della famiglia Scariolo. Marcello è legato a Giuseppe Brognoli, da sempre amico di Sergio, e gioca a basket, nella Rondine, la squadra cittadina. «Playmaker con le molle sotto ai piedi, è lui a insegnarmi i primi fondamentali sulla pallacanestro» lo descriverà.

Il primogenito della famiglia Scariolo rimane affascinato da questo sport così diverso dal nuoto e dal calcio che già pratica. Papà Cesare, il professor Scariolo, intuisce che questo sport potrebbe essere quello di cui il suo Sergio si innamorerà, e si attrezza di conseguenza: in cortile viene montato un tabellone di legno con un ferro in metallo, è il primo canestro con cui Sergio Scariolo deve confrontarsi. La sua famiglia, ed in particolare papà Cesare, professore di matematica, avrà a vario titolo un’influenza importante nelle scelte del futuro coach: le prime partite a cui Sergio assiste sono di basket femminile. «Papà insegnava matematica in università ed al Piamarta, storico istituto superiore a Brescia: aveva un rapporto speciale con i suoi studenti. E così la domenica, dopo essere stati a messa a Santa Maria della Vittoria, ci fermavamo all’oratorio a vedere la squadra femminile formata dalle sue studentesse».

Il basket con cui rompe il ghiaccio Scariolo è quello studentesco, su un campo all’aperto che ancora oggi è un playground cittadino: prima di diventare allenatore, giocoforza, Sergio è stato giocatore. Nel suo cammino arriva il momento del passaggio all’allora Basket Brescia. Ma la leva di cui fa parte, non va a buon fine: all’ultimo giro viene scartato. E’ la prima vera e propria delusione cestistica di Sergio che avrà nei «No» bresciani quella spinta motivazionale che lo farà andare alla ricerca dell’esplosione nel mondo della pallacanestro. Il liceo classico dopo le scuole medie, anticamera degli studi universitari milanesi di giurisprudenza: sullo sfondo sempre la palla a spicchi, tante amicizie vere, coltivate nel tempo, e che ancora oggi continuano, tra una videochiamata su zoom e la promessa di ritrovarsi a Brescia per riprendere l’ultima partita a carte.

Persona di valore e di valori, Sergio Scariolo, come tutti i bambini ha iniziato prendendo a calci un pallone: l’Italia è il paese del pallone che rotola, e Sergio vive in una città che di “fobal” ci vive. Le rondinelle che si sono spostate da pochi anni dallo stadium di viale Piave al Rigamonti di Mompiano sono la prima squadra del cuore, a cui Scariolo preferisce solo l’Internazionale FC di Milano, che nel tempo diventerà una mania. Lo zio, interista sfegatato, gli trasmette la passione per i nerazzurri e Sergio alterna le domeniche pomeriggio in curva nord per seguire il Brescia, di cui diventa un fedele abbonato, a quelle passate alla radiolina in attesa di un gol da San Siro. E quella per la squadra nerazzurra diventa quasi una malattia, come lui stesso ricorda. «Non c’è maniera dal farmi desistere da seguire una partita dell’Inter: valeva da ragazzo, ed è ancora così oggi».

Con il basket il discorso è molto diverso: segue il Basket Brescia, che si arrabatta nelle minors di allora, ma il suo non è l’interesse tipico del tifoso. Tutt’altro: l’approccio è molto poco emozionale, e decisamente analitico. Preferisce Milano, non quella scintillante delle scarpette rosse, ma la Pallacanestro Milano, oltre a Varese. Sergio studia la pallacanestro, cerca di capirla. Ha un sussulto quando al nuovo palasport EIB, eretto nei primi anni ’70, l’allora Forst Cantù gioca la sua stagione interna, in un palazzo che ricorda molto da vicino quello che sarà il Pianella. Brescia, che la serie A non l’ha ancora vista, si innamora così della massima serie, e tra i tanti bresciani che passano le domeniche a vedere i brianzoli in via Orzinuovi, c’è anche il ragazzino di Piazzale Cesare Battisti. In campo c’è il “Pierlo” Marzorati, allenatore è Arnaldo Taurisano, che neanche a farlo apposta siederà sulla panchina di Brescia nella stagione successiva a quella dell’addio di coach Scariolo. Perché, per quanto oggi possa essere incredibile, al termine della prima stagione nel ruolo da viceallenatore in serie A (1983/84), accanto al compianto Carlo Rinaldi, c’è proprio lui, un giovanissimo (22 anni) Scariolo.

La squadra, la Simmenthal Brescia, nonostante un buon inizio arranca, e dopo un girone di ritorno nefasto retrocede in A2. Il giorno dopo la retrocessione, a sorpresa, Scariolo viene mandato via: un avvenimento inconsueto se vogliamo, che fa capire come spesso i rapporti nella società del vulcanico presidente Mario Pedrazzini potessero essere veramente complicati. Giordano Udo Marusic, colonna di quella squadra negli anni ’80, racconta questo aneddoto al riguardo: «A livello di squadra avevamo un ottimo rapporto con il presidente: spesso e volentieri eravamo a cena a casa sua. A poche giornate dal termine ci disse di voler mandare via coach Rinaldi: io ed i miei compagni lo invitammo a non farlo, oramai eravamo già spacciati e non avrebbe avuto alcun senso. Ma mai mi sarei aspettato, alla ripresa degli allenamenti post retrocessione, di scoprire che la società aveva mandato via Sergio».

Pedrazzini, che non fu materialmente responsabile della scelta di allontanare Scariolo, era un personaggio incredibile, e Scariolo se lo ricorda benissimo: «Una persona con il senso dell’investimento sportivo e con un grandissimo amore per il suo Basket Brescia. Capace di essere estremamente sgarbato ed altrettanto effusivo con la stessa persona nell’arco di cinque minuti. Quando arrivava in sede le sue sfuriate erano epiche, soprattutto col gm di allora, il povero Assuero Tacconi, vittima societaria designata. Ma senza di lui non ci sarebbe mai stato il basket di alto livello».

Le delusioni e le sconfitte però hanno la capacità di forgiare le persone: all’università manca poco alla discussione per la tesi di laurea in giurisprudenza. Sergio brucia le tappe: «Avevo il solo desiderio di finire il prima possibile». Detto, fatto: Scariolo si laurea e dopo nemmeno due giorni parte per il Car a Macerata, per prestare servizio militare nelle Forze Armate, in Aeronautica. Ad attenderlo la squadra che gioca in serie B a Vigna di Valle, vicino Roma. A casa si attendono che Sergio, finito il militare, entri nello studio legale avviato dal cugino: quando dopo la naja comunicherà invece alla famiglia la scelta di voler fare l’allenatore a tempo pieno, non la prendono benissimo. Ma lui, caparbio come sempre, ormai ha deciso. In casa avevano da un pezzo imparato a fare i conti con la sua tenacia, che in alcuni casi diventa proprio ostinazione allo stato puro.

Da bambino Scariolo è stato un giornalista in erba, che autoproduce un giornalino manoscritto con le cronache sportive dell’epoca, da rivendere ai parenti per pagarsi i ghiaccioli da 50 lire. E quando a casa Scariolo arriva una busta che riporta un premio del settimanale Topolino, per un concorso a cui Sergio ha partecipato in maniera del tutto autonoma, a 8 anni, la premessa di un futuro da secchione e ribelle, pronto a rientrare a casa ogni tanto un po’ segnato per aver difeso qualche amico, appare abbastanza lampante. In cuor loro Cesare ed Angelina sanno che quella della Simmenthal sarebbe stata l’ultima stagione di Scariolo allenatore. In terra bresciana, però: con il resto del mondo della palla a spicchi Scariolo stava solo cominciando a prendere confidenza. Del resto la sua carriera era iniziata un decennio prima, coincidendo con la fine dei sogni di gloria da giocatore che ogni appassionato di basket cova.

A Brescia in quegli anni c’è il Basket Brescia, quello che diventerà Pinti Inox, e c’è la Pejo, o più semplicemente Pallacanestro Brescia, nata nel 1957, che è la versione in gonnella. Nel 1971 apre anche al maschile e nelle giovanili c’è un ragazzo dalle leve lunghissime, un certo Marco Solfrini. Sergio gioca lì un paio di stagioni tra giovanili e promozione. Finisce nel gruppo che la Pinti Inox nel 1976 sta creando per le proprie giovanili. «Due mesi di selezioni e poi… Il taglio, l’ultimo di quella stagione. Pensavo di avercela fatta: una delusione tremenda» racconterà. La prima, cestisticamente parlando, di uno Scariolo che ritorna alla Pejo e comincia a guardare il campo di gioco con occhi diversi. «Gli infortuni alle caviglie sempre più frequenti mi avevano fatto capire che il sogno era definitivamente svanito». Chiusa la porta, si apre il più classico dei portoni: «Mi proposero di allenare la categoria Ragazzi, gli odierni under 14, e così cominciò la mia carriera. Feci il corso allenatore a 16 anni». Cosa quasi impensabile oggi: ma Scariolo è sempre molto più avanti dei suoi tempi.

Da bambino, mentre mamma Angelina ha deciso di lasciare la professione di farmacista per insegnare e dedicarsi alla famiglia a tempo pieno, Sergio passa diverse ore davanti alla televisione, la vera baby-sitter di tanti bambini dell’epoca. C’è il maestro Manzi che insegna a un’Italia decisamente molto indietro a livello di alfabetizzazione. A quattro anni Sergio Scariolo, in braccio alla mamma, comincia a leggere tutto quello che gli capita a tiro, sorprendendo mamma e papà. Non stupisce dunque che poco dopo aver cominciato a catechizzare i suoi ragazzini, Sergio capisca qualcosa di estremamente ovvio, ma mai scontato: «Bisognava copiare da quelli bravi». Che alla Pejo sono due: Mario Zanardelli, allenatore della prima squadra femminile, e Marco Boselli, allenatore delle giovanili. «A loro ho cominciato a rubare segreti, nozioni, idee».

E’ un secchione il giovane Scariolo: studia la pallacanestro, non solo le materie scolastiche - anche perché un 7 può diventare una tragedia famigliare - e persevera nel volersi confrontare con quelli bravi. «Chiedo ed ottengo di poter seguire gli allenamenti del Basket Brescia di Riccardo Sales». Il Barone, anzi il “bavone” per via di quell’inflessione sulla r, sempre in giacca e dal baffo che lo accompagnerà in tutta la sua carriera, prende sotto la sua ala protettrice quel ragazzo intraprendente e che è sempre lì all’EIB. A Brescia l’allenatore nativo di Arona sta facendo crescere una squadra “ascensore” fatta di giocatori giovani e futuribili, ed in quell’annata percepisce il talento di Scariolo. Dopo un annetto a vederlo bazzicare nel palazzo delle fiere voluto dagli industriali bresciani, decide di portarlo al Basket Brescia: «Mi propose di allenare le giovanili e di dare una mano alla prima squadra: ad essere sinceri il mio apporto diretto con chi giocava in serie A era veramente minimo. Lavoravo in ufficio al mattino, approfittando del fatto che il vice di allora, Aldo Derelli, insegnava. Con Riccardo ho imparato molto».

Brescia è una città che ha già scoperto la serie A, che tre ore prima della palla a due si accalca fuori dal palazzetto sorto ai limiti meridionali della città, attaccato alla tangenziale, dove la domenica pomeriggio le corsie vengono dimezzate a causa delle auto parcheggiate a ridosso dei guard rail. Con Sales nasce un rapporto forte. «Riccardo è stato uno dei miei secondi papà, ho potuto contare su di lui anche quando le nostre carriere hanno preso strade diverse». Al lavoro iniziale in sede al mattino si alternano le sedute in palestra e la conoscenza con la prima squadra. L’aspetto che affascina di più Scariolo è il rapporto con i giocatori americani: sempre per dare seguito alla necessità di crescita e di confronto, è con gli stranieri che il futuro CT della Spagna crea i rapporti più profondi.

Nella crescita professionale di Scariolo c’è spazio per i primi successi, le prime delusioni, e per le esperienze che insegnano qualcosa di diverso: nella stagione che precede l’approdo alla panchina di Brescia, il rapporto con Stan Pietkiewicz e Tom Abernethy, confermatissimi dopo la promozione in serie A, si intensifica. Tom però ha qualche problema di vista: ha 29 anni, un titolo NCAA ad Indiana, il passaggio ai Lakers dove resta due stagioni prima di altre tre annate tra Warriors e Pacers. A Brescia, dopo la cavalcata dall’A2 ed i quarti persi col Billy Milano, vuole spaccare il mondo. Ma c’è qualcosa nei suoi occhi che non va. E tocca a Sergio il compito di portarlo a Parma, a una visita oculistica.

«Io e Tom: un viaggio che a ripensarci mi sembrò lunghissimo, soprattutto dopo la visita». Perché il parere medico è devastante: Tom deve smettere di giocare. «Non sapevo come affrontare il discorso, come prepararlo a quella che sarebbe stata la diagnosi che avrebbe ricevuto dopo pochi giorni. Avevo parlato con l’oculista he l’aveva visitato e sapevo già tutto. E’ stato un viaggio straziante». Che però forma Scariolo, lo mette di fronte a quello che potrebbe essere il suo futuro da allenatore, l’affrontare i problemi personali di un giocatore della sua squadra. Certo a 21 anni è durissima dover spiegare a qualcuno che non scenderà più sul parquet.

Ma com’era il primo Sergio Scariolo da allenatore? Per certi aspetti una macchina. A ricordarlo c’è uno dei suoi ex ragazzi di allora, Vincenzo Cavazzana. «Posso dire che averlo avuto a livello delle giovanili mi cambiò la vita» racconta lui, che oggi è vice allenatore di Varese in serie A. Perché Vincenzo non era un predestinato, ma un giocatore di estrema applicazione, e questo Scariolo lo capì subito. «Non ero quello che si può definire un giocatore di talento: ma ho avuto la fortuna di incrociare Sergio ed averlo come allenatore per tre stagioni consecutive». Cadetti, Allievi, prima squadra: il basket di quegli anni era molto diverso e se vogliamo maggiormente inclusivo per i giocatori cresciuti nei vivai: due soli americani per squadra, e diversi posti delle rispettive panchine di serie A ed A2 occupate da giovani locali. «Quando dico che mi ha cambiato la vita, non sto scherzando. Aveva già la mentalità dell’allenatore di serie A: ci allenava con la cura dei dettagli che ritrovi solo ai massimi livelli. Avevamo tutto dei nostri avversari: statistiche, schemi, schede tecniche. Eravamo estremamente preparati. A me sembrava un adulto navigato, realizzai poi che quando io ero entrato nel basket Brescia avevo 14 anni e lui 20. Mi sono reso conto solo in seguito quanto fosse giovane».

Avere a che fare con un allenatore di quella risma fortifica, ed esalta. «Se sono ancora nell’ambiente lo devo al fatto di averlo avuto come maestro: a quell’età si assorbe tutto come una spugna». Non era un allenatore morbido, Scariolo: «Si capiva che veniva da una scuola dura, molto severa: mi ricordo delle preparazioni al campionato con allenamenti per tre settimane di fila senza palla. Mi ha forgiato: per affrontare livelli alti mi ha fatto capire che bisogna allenarsi più degli altri, fare sempre di più». Un modello, anche di stile. «Era un po’ il Pat Riley  dell’epoca. Sempre molto elegante, e non amatissimo nell’ambiente bresciano, aveva preso le abitudini di Sales» prosegue Cavazzana. Ma per Scariolo nessun accendino sotto la panchina, come faceva il Barone: «Assolutamente no, ma l’inginocchiarsi con la salvietta sotto le ginocchia sì. Era anche un rivoluzionario: una volta al mese trascinava in palestra Stan Pietkiewicz a farci lezione di ball-handling».

Non è un caso che ad insegnare in palestra ci fosse il playmaker che aveva portato in serie A Brescia nel 1981/82, mettendo poi apprensione al Billy di Dan Peterson ai quarti di finale scudetto di quella stagione. Tra Stan e Sergio si crea un rapporto speciale, basato sulla fiducia reciproca. Ed è lo stesso giocatore americano, passato dai Clippers e dai Mavs oltre che in tanta CBA prima di approdare in Lombardia, a parlare oggi di Scariolo: «Non sono per nulla sorpreso quando vedo il palmares di Sergio - racconta Piet, ancora molto amato a Brescia - nella vita capita di imbattersi in persone che hanno una grande passione, che sono disposte a lavorare duramente e ad impegnarsi a fondo in ciò che amano di più: ecco, Sergio era una di esse».

Il feeling tra i due a Brescia era sbocciato in maniera quasi istintiva. «Ho immediatamente compreso che, come me, condivideva l’identica passione per la pallacanestro, la stessa determinazione, la stessa voglia di migliorarsi costantemente». Stan e Sergio passano ore assieme a parlare, di basket e di vita: spesso e volentieri la cucina della signora Angelina, mamma di Sergio, veniva apprezzata dal play americano. «Sono orgoglioso di aver avuto la possibilità di giocare davanti a lui a quell’età; spero che abbia compreso che tipo di persona fossi, che giocatore ero, e che ciò l’abbia ispirato ad essere ciò che è oggi».

Chi invece l’ha conosciuto molto bene dentro e fuori dal campo è Ario Costa: il presidente della Vuelle Pesaro è cresciuto a Brescia, dove ha avuto Scariolo da vice allenatore dal 1981 al 1984, prima di ritrovarlo in quel di Pesaro da vice di Bianchini prima e allenatore della prima squadra poi. «Il nostro è un rapporto che va avanti da quarant’anni - dice Costa - abbiamo vissuto un periodo d’oro ed ho con lui un legame particolare». Che però rischiò fuori dal campo di incrinarsi per un curioso episodio al termine della prima stagione. «Dopo la promozione in serie A, uscimmo a festeggiare. Dalle parti di Mompiano c’era un locale dove la società organizzò una serata. Io adocchiai una ragazza molto carina e, vista anche la mia età, cominciai a fare lo stupido con lei. Arrivarono degli sguardi da parte di Sergio che non compresi, fino a quando qualcuno mi spiegò che si trattava di sua sorella Nadia. Mi ritirai in buon ordine».

Aldilà di questo aspetto, il rapporto tra Costa e Scariolo era ed è unico: «Si vedeva da subito l’ambizione che aveva. Voleva arrivare lontano e c’è arrivato. Con grande umiltà si avvicinò al Basket Brescia e alla Vuelle Pesaro. Lo reputo un predestinato». E in più stiloso, fin dai tempi. «Oltre a vestire sempre in maniera elegante - continua Costa - era famoso perché aveva un’auto che lo rendeva ancora più unico». E’ una Mantra Bagheera gialla, colore classico di quella particolare vettura sportiva, ma che faceva sorridere in quanto decisamente inusuale. «Posso dire che fosse già pettinatissimo ai tempi: siamo coetanei, eppure già ad un’età in cui non sempre si guardava l’etichetta, lui dimostrava una cura del look quasi ossessiva».

Mamma Angelina era fissata sull’eleganza, e Sergio ne fu contaminato. Non una ricerca di seguire la moda, ma di restare sul classico, scegliendo lo stile, ed i tessuti migliori. I jeans, tanto per dire, non ha mai saputo cosa fossero. E in quegli anni a Brescia i giocatori di basket erano considerati dei semidei: amati da tutti, tifosi e non, non venivano di certo ignorati. E non faceva eccezione Sergio Scariolo. «Ci trovavamo spesso allo Chalet – locale storico ancora in voga a Brescia - in castello: quando arrivava Sergio, arrivava il ragazzo perfetto. Non passava mai inosservato: lo si vedeva che aveva un’altra indole, con quell’aria da professorino. Era già avanti rispetto a noi giocatori, nonostante l’età fosse quella». Brescia la forte e ferrea, come scrisse il Carducci, aveva generato questo allenatore gentiluomo, dallo stile difficilmente ripetibile. Che di vincente ha sempre avuto il carattere e la testa, capace di guadagnarsi rispetto, nonostante l’età.

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Giganti # 11 (maggio 2023) | Pagina 12-24

Alberto Banzola

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