C'è ancora vita dopo il Pick&Roll?
Era questo l’evocativo titolo della tavola rotonda che ha aperto la mostra di Pesaro. Bianchini, Peterson, Bertini e Tavcar, moderati da Zapelloni, hanno fatto rivivere un’epoca d’oro da par loro
Ad aprire virtualmente le porte di un viaggio fantastico nel mondo della pallacanestro, quello proposto dalla mostra pesarese, “quattro moschettieri” d’eccezione quali Franco Bertini, stella del basket pesarese e stimato giornalista, “The Coach” Dan Peterson, il “Vate” Valerio Bianchini e il telecronista per eccellenza, Sergio Tavcar, sono stati riuniti per una tavola rotonda dal titolo “C’è ancora vita dopo il Pick & roll?”. Cerimoniere della serata, in una location peraltro incantevole, Umberto Zapelloni, ex vice-direttore della Gazzetta dello Sport, giornalista del Corriere della Sera, del Giornale ed ora editorialista e responsabile di Multi-medianews.it, uomo di basket che con mirabile destrezza ha “domato” i battitori liberi in un percorso di vissuto cestistico carico di aneddoti.
L’argomento con sui si alza la “palla a due” virtuale del dibattito non poteva che essere imperniato sulla figura di Aldo Giordani, fondatore della rivista Superbasket, ma soprattutto l’uomo che ha elevato la pallacanestro ad un ruolo preponderante nello sport italiano, fra spallate con l’egemone calcio alla Domenica Sportiva e un nuovo modo di comunicare, come i celebri “pallini” e salti carpiati editoriali, tipo la esilarante triplice firma (in salsa yankee ovviamente) inventata per far scrivere diversi articoli a Dan Peterson.
Tutti hanno concordato sull’individuazione degli anni ’80 come apogeo del movimento nazionale. Valerio Bianchini ha voluto sottolineare come il “Rinascimento” cestistico italiano sia stato la raccolta di una semina avvenuta negli anni ’70, grazie ad esponenti di spicco come Marzorati, Bariviera, Meneghin e una nidiata di talenti che regalerà l’oro di Nantes nel 1983. Un momento d’oro caratterizzato da magnati di grande generosità e passione, come Valter Scavolini a Pesaro, Bogoncelli e Gabetti a Milano; da dirigenti di grandissima levatura quali Allievi, Porelli; e da allenatori di clamorosa capacità e personalità quali Peterson, Bianchini, Taurisano, Zorzi.
L’“uno contro uno” virtuale fra Peterson e Bianchini è un duello rusticano a colpi di genio, tattici e mediatici: la 1-3-1 di “The Coach” che ha fatto epoca contro l’“assassino del sabato” (cit. Dan Peterson), cioè Valerio Bianchini, abile a rilasciare dichiarazioni il giorno prima della partita, la sera, per non trovare un contraddittorio il giorno successivo. Sgambetti, gioco sporco, piccole-grandi strategie che arricchivano il romanzo sportivo senza declassarlo, semmai portandolo a vette inesplorate, ammaliando una platea sempre più folta di appassionati.
C’era tutto un mondo nell’Europa che traghettava il pionierismo cestistico alla contemporaneità un po' uniformata, abbandonando episodi incredibili. Come le luci dell’impianto improvvisamente spente durante una giocata decisiva di Franco Bertini; o il celeberrimo cronometro a taratura casalinga del palasport Jazine di Zara (lo ricorda Sergio Tavcar), per cui una partita di coppa contro il Real Madrid durò 2 ore e 20 minuti (senza però l’esito finale voluto). Incrocio di situazioni, di piazze per cui la pallacanestro rappresentava uno stile di vita; Valerio Bianchini ha ben rappresentato le peculiarità radicate in città di provincia, per cui era necessario camuffarsi onde evitare le ritorsioni locali (pesaresi, ndr.) dopo la rinuncia all’idolo Aza Petrovic (per Darwin Cook, ndr.) o scappare per i campi con moglie sottobraccio dopo un derby con Milano (sulla panchina di Cantù).
Non puoi fare a meno di rimanere incantato dalla lucida e colorata esposizione di questi grandi personaggi: un caleidoscopio che si materializza nell’immaginario dell’ascoltatore con tutti i colori di un vissuto pieno, di un qualcosa che non può essere paragonato all’epoca contemporanea. E così si ha la plastica sensazione che dagli anni ’90 in poi la pallacanestro italiana si sia impoverita involontariamente, e sia rimasta orfana di esponenti di cotanto spessore, di risorse elargite da uomini appassionati che diano il giusto peso specifico ad uno sport meraviglioso. La chiusura della tavola rotonda può essere letta come un monito, come il rischio che la memoria sportiva della palla a spicchi resti un percorso museale, interrotto e ingiallito dal tempo, che la contemporaneità venda un prodotto così liofilizzato da non essere nemmeno gustato.
Se l’aspetto economico è una variabile che ha pochi margini di malleabilità, tutto il resto è argilla da plasmare con la passione, la cura, la competenza, bagaglio con cui i “quattro moschettieri” hanno forgiato materia grezza per far rivivere un’era cestistica impressa nella memoria di tutti. Il miglior modo di celebrare i 45 anni di Superbasket, i migliori testimonial di una maturità raggiunta e il più azzeccato evento quale augurio di un futuro altrettanto brillante.
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Superbasket # 61 (maggio-giugno 2023) | Pagina 16-18