“Un maestro, non un domatore”
Severità, chiarezza, programmazione: sono diventato presto un ammiratore di Ettore
Un coach acquisisce popolarità e rispetto per la sua capacità di scegliere i giocatori adatti ad una squadra vincente, per la Nazionale, per il futuro di un club: tutti sono d’accordo su questa affermazione. Io aggiungo una dote: essere capaci di individuare gli assistenti adeguati. Sono stato fortunato perché i miei staff li ho formati con tecnici di grandi capacità di osservazione, organizzazione, didattica. Qualche nome: Bruno Arrigoni a Varese, Gianni Asti a Torino, Riccardo Sales e Tonino Zorzi con la Nazionale, Ettore Messina con la Virtus Bologna. Tutti, dico tutti, mi hanno migliorato professionalmente. Ritengo imperativo che un allenatore debba imparare sino all’ultimo giorno della sua carriera. E i miei assistenti sono stati molto generosi nei suggerimenti tecnico-tattici e nel saper convivere con me, che non ho mai avuto un carattere morbido. Al contrario, si diceva di me che fossi “flessibile come una putrella”.
Messina si è adattato meglio di tutti a tale putrella. Ettore è stato mio collaboratore alla Virtus per due anni (1985-1987). Non lo conoscevo, ma mi era stato descritto come un eccellente insegnante di basket nel settore giovanile. Porelli, allora plenipotenziario, il giorno della firma del contratto mi disse: “Penso che Ettore possa diventare un buon coach perché ha il cervello adatto anche se talvolta mi sembra malinconico”. In tempi rapidi capii che Ettore non era triste, ma di atteggiamento severo, con eccellente capacità di osservazione e concentrazione. Sapeva parlare per suggerire e consigliare, correggere nei momenti giusti, con linguaggio efficace, con me e con i giocatori. Parlava un inglese corretto e non lasciava dubbi di interpretazione soprattutto con gli americani che si alternavano in squadra.
Spesso andavo in palestra ad assistere ai suoi allenamenti con la squadra juniores perché mi piaceva come lavorava sul campo. La parte didattica era chiara e alla portata di tutti e le correzioni erano accompagnate da una capacità dimostrativa ammirevole. La sua autorità passava da un mix di emotività e severità. Aveva un concetto di squadra molto moderno. Non era un domatore, ma un maestro dinamico nel fare e nel pensare. Nel basket le situazioni si succedono rapidamente. E le reazioni richiedono altissima attenzione e una chiara comunicazione con la squadra e il singolo giocatore. Messina è un efficace comunicatore nelle situazioni critiche: la sua mimica fa capire ai giocatori che è tutto ok, oppure che potrebbe strozzarli. Condividevamo la medesima mentalità: direzione dei lavori autorevole, intensa e senza tregua, in campo e negli spogliatoi. L’ho ammirato per il suo comportamento inflessibile perché lo sentivo affine. Formato il coaching staff, lo ha sempre coordinato come un manager d’azienda capace di arrivare alla parte importante del problema in modo rapido e asciutto per ottenere la più alta qualità possibile. E come i migliori manager aziendali è capace di attrarre persone di talento: per una squadra migliore e per raggiungere i traguardi prefissati.
La nostra collaborazione è stata limpida e rispettosa: alla fine sono diventato un suo ammiratore per il metodo con cui programma la sua attività. Parlo di appunti, schemi, commenti: tutto per iscritto. Mi ricorda la scena di “Beautiful Mind”, quando la moglie di John Nash trova i muri dell’ufficio del marito tappezzati di fogli di appunti: lei lo interpreta come la prova di un cervello sgangherato. Grave errore: quell’ufficio non era tanto differente dal nostro, mio e di Ettore, quando allenavamo la Virtus e la Nazionale.
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 98