E Messina diventa “the italian coaching legend”
Cominciamo dalla fine, cioè dall’oggi. Ettore ha un ruolo importante a San Antonio, primo assistente del leggendario Popovich. Eppure l’amore per la Nba era stato a lungo ritenuto impossibile e poi negato. “Quella cena londinese del 2012 con Gregg: lui me la ricorda ancora come se fossimo due fidanzati...”
Oggi ci sembra del tutto normale accendere la Tv e gustarci una partita Nba. E vedere spesso, accanto a Gregg Popovich, Messina come primo assistente di uno degli allenatori e dei club più famosi del mondo. Ma, negli anni 70, quando Ettore s’è appassionato a questo gioco chiamato basket, che ti prende come poche altre cose nella vita, la galassia dei professionisti americani era lontana anni luce. Confinata, anche per gli addetti ai lavori, proprio sulle pagine dei “Giganti”: pochissimi fortunati, che formavano la propria competenza sulla traduzione di riviste americane o su qualche filmino che circolava quasi clandestinamente, ne raccontavano le gesta epiche. Messina s’è accostato a questo palcoscenico astrale proprio così, da adolescente. Mai avrebbe immaginato che un giorno ci sarebbe salito da protagonista. Un “miracolo” in apparenza. Ettore a riguardo la pensa proprio come l’ex presidente Obama, recentemente intervistato dal celebre David Letterman: “Una delle cose che mi stupisce sempre quando vedo persone che hanno avuto successo nel lavoro, nell’entertainment, nella politica è che sono tutte fermamente convinte che sia andata così perché sono tanto intelligenti. Io invece mi dico sempre: ‘Ho lavorato sodo, ho del talento certo, ma nel mondo ci sono tantissimi che lavorano duro e che hanno talento’. C’è sempre una forte componente di casualità nelle cose. Per me è importante sottolinearlo per due ragioni: intanto non mi sento di conseguenza così in alto, e poi perché mi sforzo di trovare un modo per spargere la ‘polvere magica’ anche sugli altri”. Messina sottoscrive, come sentirete: la sua carriera è piena di questi momenti magici e tutta da raccontare. Cominciamo dalla fine, allora.
In un’intervista del 2008 ha dichiarato: “…è impossibile che mi vediate su una panchina Nba, anche perché bisognerebbe fare un periodo di apprendistato come D’Antoni e Bob Hill; inoltre penso che non sarei un buon assistente”. Cosa è cambiato?
“La molla principale non è stata l’ambizione di essere il primo allenatore italiano a sbarcare negli Usa, ma un insieme di fatti personali che mi hanno spinto in quella direzione. Accettai nel 2011 la proposta di Mike Brown di seguirlo ai Lakers in un momento per me molto difficile, era la stagione del lockout e sapevo che sarei potuto rimanere in Italia almeno fino a novembre. Dunque, inizialmente la decisione di allenare nella Nba è stata una scelta di vita, prima che professionale. Poi tornai a Mosca per due anni e nel 2014 arrivò la proposta di Popovich di fargli da assistente a San Antonio. Mi sono confrontato con mia moglie e abbiamo ritenuto che fosse giunto il momento di cambiare un po’ aria e di effettuare un’inversione di rotta completa su tutta la linea”.
Come si è concretizzato il contatto con San Antonio?
“Alla fine del mio primo anno del ritorno al Cska, stagione 2012/13, mi chiamò Popovich chiedendomi di fargli da primo assistente. Era già luglio e il Cska, interpellato dagli Spurs, disse che non mi avrebbe lasciato libero. A San Antonio furono così bravi da aspettarmi l’anno dopo, quando il contratto con Mosca sarebbe scaduto. A quel punto accettai: sapevo che avrei trovato un ambiente coeso, analogo a quello che avevo già sperimentato durante i primi quattro anni a Mosca, poi a Treviso e a Bologna. Un posto dove si sta bene insieme anche fuori dal campo, dove prevale lo spirito di gruppo”.
Aveva già avuto rapporti in precedenza con l’organizzazione degli Spurs?
“Ci eravamo conosciuti nel 2000 quando venivano in Europa per vedere Ginobili; poi avevo allenato Nesterovic, che ha giocato due stagioni con loro. Conoscevo già R.C. Buford, Popovich, Danny Ferry, ex assistente gm. A marzo 2011, conclusa la mia esperienza a Madrid, mi invitarono a passare del tempo con loro, ad assistere agli allenamenti, seguendoli anche negli spostamenti. Fu veramente una manifestazione di grande umanità e affetto, non avevano un vero motivo per farlo. Sempre lo stesso anno andai anche a Chicago, per il pre draft. Insomma, mi coinvolsero in un momento per me difficile, un gesto che mi colpì molto”.
Come si è evoluto il suo rapporto con Gregg Popovich?
“Alle Final Four di Eurolega a Milano nel 2014, perdemmo con il Cska la semifinale in una maniera a dir poco rocambolesca. Gli allenatori, dopo una sconfitta importante, per un paio d’ore dimenticano tutte le cose ben più gravi e rimarchevoli della vita. Io ero in quella fase: la partita persa contro il Maccabi mi sembrava la più grande tragedia. Pop chiamò e mi disse: ‘Ho visto cos’è successo, difficile anche solo da immaginare. Mi ricorda la nostra gara 6 contro Miami alle Finals del 2013, con la tripla di Ray Allen che ci costrinse al supplementare. Non so che dirti: ci siamo proprio scelti un lavoro del cavolo!’ Un altro incontro risale all’anno precedente, estate del 2012. Ero a Londra per fare le telecronache delle Olimpiadi assieme a Flavio Tranquillo: Buford mi chiamò avvisandomi che Pop sarebbe venuto e che voleva vedermi a pranzo o a cena. Il pranzo a Londra fu in un ristorante italiano, mangiammo le tagliatelle al ragù e per un paio d’ore chiacchierammo di pallacanestro, ma non solo. Credo che in quell’occasione Popovich volesse capire se avevamo quel minimo di affinità necessaria perché potessi fare il suo assistente. Me ne sono reso conto in seguito. Ancora adesso ogni tanto mi ricorda come sia cominciato tutto con quel pranzo a Londra, ‘come fossimo due fidanzati!’ (risata)”.
La preoccupava tornare a fare il vice dopo tanti anni e tante vittorie?
“Sì, molto. Prima di tutto perché significa entrare in un sistema che non è il tuo. Per quanto tu possa apprezzare e capire, è comunque l’espressione di un modo di vedere e pensare il basket di un’altra persona. Ognuno ha degli occhiali diversi attraverso cui interpreta la realtà. Per inserirmi dovevo capire che gradazione avevano gli occhiali di Pop e trovarne un paio di simili. Possono esserci dettagli che non condividi e devi valutare se vale la pena sostenere una discussione oppure no. Io forse ho un vantaggio: sono stato nei suoi panni per tanti anni e credo di riuscire a capire meglio alcuni stati d’animo, avendoli sperimentati in prima persona”.
Ha poi superato le difficoltà?
“Direi di no, tuttora ho spesso dei dubbi. E appena arrivato fui subito buttato nella mischia. Alla prima amichevole del precampionato, a Phoenix, Popovich mi disse: ‘Io domani non vengo, vai tu’. Mi ritrovai quindi ad allenare la squadra, peraltro anche senza le star. Poi a novembre, prima del Giorno del Ringraziamento, il coach saltò due partite per un piccolo intervento e toccò a me”.
Era emozionato alla sua prima uscita da head coach?
“Altroché! Al momento non me ne sono reso conto, poi mi sono detto: ‘Aspetta un attimo, ti hanno dato in mano una Ferrari, vedi di non mandarla contro un muro…’. Inoltre, la partita Nba è sensibilmente diversa dalle nostre. Intanto è di una lunghezza esasperante: i 48 minuti cambiano completamente le rotazioni, le scelte tecniche e tattiche. Il ritmo è rapidissimo, non solo nel gioco, ma anche nei cambi, negli adeguamenti; stargli dietro è abbastanza complesso, per questo si dispone anche di più time out: per fronteggiare ogni situazione. È un’esperienza molto bella e interessante, soprattutto se hai una buona squadra. Presentarsi nello spogliatoio degli Spurs significa trovarsi a parlare a gente come Leonard, Parker, Ginobili, Duncan (prima che si ritirasse) che si aspettano che tu faccia l’allenatore, e tu devi farlo!”.
E nelle occasioni in cui ha dovuto farlo la squadra ha risposto bene?
“Vi racconto un aneddoto. Premessa: lo scadenzario delle rotazioni e del minutaggio dei diversi giocatori è ben preciso. Nella mia prima partita da capo allenatore, alla fine del primo tempo, mi accorgo che qualcuno aveva giocato più del dovuto, qualcuno un po’ meno. Nessuno fa una piega, ma in spogliatoio, una volta fatto il mio discorso, aggiungo una precisazione: ‘Mi sono reso conto di aver lasciato alcuni troppo in campo. Non ho ancora l’abitudine a giocare sui 48 minuti, portate pazienza che le cose andranno meglio nel secondo tempo’. Uscendo, nel corridoio per raggiungere il campo, sentii un braccione che mi agganciava le spalle. Era Tim Duncan: ‘Stai tranquillo, se ci sono dei problemi ci siamo io e Manu, tu pensa ad allenare che va bene così’. Neanche quando ho avuto giocatori come Brunamonti e Danilovic, gente che si era ben preoccupata di me, avevo ricevuto un tale incoraggiamento. Tim Duncan, alla sua 18a stagione Nba, si trovava davanti un allenatore italiano, che non sapeva neanche da dove arrivasse e si mobilitava, per il bene della squadra ovviamente, per metterlo a proprio agio e in condizione di lavorare con serenità: incredibile. Questo è uno dei ricordi più significativi che mi porto dentro”.
R.C. Buford, il vostro general manager, sottolinea l’importanza per Popovich di avere un assistente di carattere in grado anche di contraddirlo. Quanto è difficile farlo?
“Nell’ambiente Spurs lo scambio di opinioni e il contradditorio sono fondamentali. Ma vi assicuro che non è per niente semplice. È pur sempre Popovich, e già questo basterebbe a farti riflettere molto prima di parlare. E considerate anche che ha uno spiccato senso della discussione sofistica”.
C’è stata qualche situazione tecnica, non ipotetica, sulla quale vi siete trovati veramente in disaccordo?
“No, non ci siamo mai trovati su posizioni completamente diverse. Agli Spurs c’è una grande capacità da parte di tutto lo staff di perseguire l’obiettivo individuato nel corso di una discussione come se fosse il proprio. Non ho mai sentito dire da nessuno, quando qualcosa non funzionava, ‘ma io l’avevo detto’. È una caratteristica delle organizzazioni di livello. D’altra parte Popovich, quando si accorge che qualche sua scelta non funziona, non ha problemi ad ammetterlo, non è schiavo delle sue decisioni. Sul piano difensivo è notevolmente creativo. Da un coach così vincente ci si potrebbe aspettare un maggior spirito conservativo, una tendenza a riprodurre situazioni conosciute. Invece, è ancora molto curioso, molto aperto a scoprire nuove situazioni, prendendo spunto anche dagli altri”.
Come lo vede alla guida della Nazionale americana alla prossima Olimpiade?
“Lo guarderò con grande interesse per scoprire cosa escogiterà. Avrà a disposizione giocatori dal talento incredibile, che gli hanno già dimostrato disponibilità eccezionale alla convocazione. A questo proposito ricordo quando l’anno scorso, alla fine di una partita a Cleveland, LeBron James e Kyrie Irving hanno attraversato tutto il parquet di corsa per stringergli la mano e omaggiare in modo sincero il loro futuro coach in Nazionale. Questo la dice lunga sul suo carisma”.
Lei ha dichiarato spesso di preferire giocatori di scuola europea rispetto agli americani. È cambiato qualcosa in questa sua convinzione?
“È vero, mi sono espresso così in varie occasioni. Sono però cambiate parecchie cose. Innanzitutto le due Leghe si stanno muovendo al contrario. La necessità di migliorarsi individualmente, di curare la preparazione, di essere competitivi sono caratteristiche sempre più proprie della Nba. Quest’anno Teodosic, Udoh, Bogdanovic, tre giocatori dei quintetti ideali di Eurolega, sono venuti in America, assieme a tanti altri di medio-alto livello. C’è una migrazione, e qua trovano quello che noi facevamo tanti anni fa con i giovani: gli allenamenti sui fondamentali al mattino, ad esempio, qui sono una pratica quotidiana. In Europa questa abitudine si sta perdendo. Poi l’attenzione all’allenatore, in primis in Italia, sta venendo sempre meno. C’è stato proprio un cambiamento nel modo di pensare. Certo l’Eurolega mi affascina sempre tantissimo. Le partite sono avvincenti, c’è un bellissimo senso del dramma e della competizione. Gli Spurs hanno una cultura molto internazionale: per loro è importante non solo l’aspetto tecnico e tattico della pallacanestro, ma anche come la vivi. Per esempio, siamo stati gli unici per lungo tempo a ritrovarci, quando era possibile, a cena dopo le partite”.
Ci svela qualcosa delle cene Spurs?
“È una tradizione che Popovich racconta di aver imparato da Mike D’Antoni, quando nel 1999 gli Spurs giocarono al Mc Donald’s Open di Milano. Dopo la gara Mike portò tutti a cena al Torchietto, lo storico ristorante che ospitava tutti i post partita dell’Olimpia. Mike spiegò a Popovich il senso di quelle occasioni per la coesione del gruppo, per riprendersi dopo una sconfitta, per festeggiare una vittoria: tutti in compagnia compresi amici, mogli, fidanzate. Pop rimase colpito e volle replicare il tutto nel suo mondo. Quando in trasferta dormiamo fuori e abbiamo due giorni a disposizione, allora usciamo a cena. Sono diventati dei momenti talmente importanti che Boris Diaw, che è anche un fotografo amatoriale molto bravo, due anni fa ha realizzato un libro con le foto scattate in queste occasioni. Si intitola Men gotta eat, ‘L’uomo deve mangiare’, frase tipica che il coach pronuncia negli spogliatoi, magari dopo una terribile sfuriata, per allentare la tensione. ‘Cosa deve fare l’uomo finita la partita?’. E tutti: ‘Mangiare’. ‘Allora andiamo a cena’, conclude Pop”.
Gli Spurs non scendono sotto le 50 vittorie dal 1996/97. In un ambiente così vincente com’è vissuta la sconfitta?
“C’è un dato ancora più incredibile: gli Spurs dal 1999 hanno vissuto un record negativo solo per 48 giorni. Ma qua la sconfitta viene vissuta con calma, dignità e classe. Come diceva Gene Wilder nel film Frankestein Junior, quando si dà una pugnalata sul ginocchio... Sono stato in tante società importantissime, con accanto persone di grande spessore, ma non ho mai visto un club perdere con più classe degli Spurs. È anche una questione di mentalità americana. Altro esempio: durante la stagione ai Lakers, non ho mai sentito, il giorno dopo la partita, addebitare una sconfitta agli errori degli arbitri. È proprio un approccio culturalmente diverso per godere dello sport in maniera positiva e divertente”.
Com’è stata la prima presa di contatto con il mondo Nba in quella Summer League nel 2003 con i Denver Nuggets?
“Fu un’esperienza bella e molto particolare. Ero già stato in America per cercare qualche giocatore, ma ero ben lontano dal pensare di allenare lì. Fu Kiki Vandeweghe, allora gm dei Nuggets, a reclutarmi. Lui era venuto con Jeff Weltman, attuale presidente di Orlando, a Treviso: avevano preso Nikoloz Tskitishvili e si stabilivano da noi quando facevano scouting in giro per l’Europa. Trovò interessante il mio modo di preparare la squadra, così dopo aver parlato con Maurizio Gherardini mi chiese se volevo andare alla Summer League. Nella loro testa, in quanto coach europeo, potevo dare una mano a Tskitishvili per inserirsi. Rimasi molto colpito dall’impegno che i giocatori misero in quella settimana di allenamento che precedette l’avvio della Summer League. La cosa più divertente fu all’inizio quando arrivai e mi resi conto che il capo allenatore Jeff Bzdelik non era stato avvisato del mio incarico (risata). Ci fu un po’ di imbarazzo nei primi giorni, ma poi la situazione si chiarì e superammo brillantemente il momento. Tra l’altro ho allenato l’unica partita di quel torneo giocata da Carmelo Anthony!”.
Fu in quell’occasione che ha cominciato a cambiare idea sul mondo Nba?
“Effettivamente proprio in quei giorni un pochino ho cominciato a cambiare opinione. Sino a qual momento pensavo che il mio futuro sarebbe stato esclusivamente in Europa. Poi inevitabilmente i fatti della vita si intersecano con il mestiere, ma non credevo che sarei mai andato a vivere così lontano dall’Italia”.
E il suo primissimo viaggio in America? Quando è stato?
“Allenavo il settore giovanile della Superga Mestre, stagione 1980/81, dove mi ero trasferito lasciando la Reyer Venezia, una cosa che a quel livello fece piuttosto scalpore. Fu Santi Puglisi, dopo aver parlato con Massimo Mangano, a chiedermi di abbandonare la laguna per la terra ferma. A quei tempi Mestre era una potenza a livello giovanile. Mi ritrovai così con un gruppo di ragazzi del 1966 veramente incredibile, con i quali vinsi lo scudetto a Riva del Garda giocando la finale contro la Squibb Cantù di Gianni Lambruschi. Verso la fine della stagione, Mangano era in partenza per l’America. Lì avrebbe incontrato, grazie a John Brown, la nostra ala che giocava con Chuck Jura, tutti i suoi ex allenatori: Cotton Fitzsimmons, Hubie Brown, Norm Stewart. Mi chiese se volevo accompagnarlo, dovevo solo pagarmi il biglietto aereo e il resto delle spese lo avremmo diviso a metà. Non mi sembrava vero: per 15 giorni girammo gli Stati Uniti, parlando a lungo di basket con questi grandi personaggi. Insomma, fu un viaggio fantastico, che mi aprì la mente. Una sorta di elettroshock, un’esperienza di cui ancora oggi conservo un ricordo vivissimo”.
Ha spesso raccontato che aver imparato bene l’inglese a scuola è stato un grande vantaggio nella sua carriera.
“In effetti sì, sapere bene l’inglese mi ha cambiato la vita. Avevo un’insegnante, a cui adesso sono molto grato, ma che allora mi sembrava una pazza scatenata: entrava in classe e parlava solo in inglese. Quindi dovevi arrangiarti, e impararlo per forza! Poi fu merito dell’intuito di mio padre, un avvocato della pubblica amministrazione casualmente nato a Venezia ma di origini, indole e formazione siciliane, che un giorno, erano gli anni 70, mi disse: ‘Guarda Ettore, l’inglese è importante, devi continuare a studiarlo per conto tuo, ti sarà molto utile nella vita’. E così mi iscrisse ad una scuola di lingue. All’inizio presi malvolentieri l’iniziativa, ma a posteriori ho realizzato che mi cambiò il destino. Già con Mangano, pur non essendo il vice, andavo in spogliatoio tutte le partite per tradurre ai giocatori americani. E anche l’opportunità con la Virtus la devo in parte alla mia buona conoscenza dell’inglese”.
Torniamo alla stagione 2011/12, quella ai Lakers. Come si ritrovò in California?
“Fu grazie a Mike Brown e Danny Ferry. Tutto ebbe inizio nell’estate 2007 quando Danny mi chiamò: pensava che sarebbe stato utile per Mike confrontarsi con una pallacanestro differente. Mi invitò alla Summer League e mi accorsi che Mike era genuinamente interessato, tanto che per due estati di fila si presentò a Brunico, al ritiro del Cska, per guardare gli allenamenti, scambiare opinioni, parlare. Si unì a noi persino per il rafting! Infine, mentre mi trovavo a Tel Aviv a tenere un clinic, Mike mi telefonò per annunciarmi che sarebbe andato a fare un colloquio con i Lakers: ‘Se mi prendono vieni con me?’. Firmò e così cominciò anche la mia avventura”.
L’ambiente intorno alla squadra è speciale a L.A.: è una piazza più difficile da affrontare? “
Se parliamo del parterre, certamente trovarsi di fronte allo schieramento di celebrità che lo compongono un po’ intimidisce. Vedere Jack Nicholson, Denzel Washington e compagnia alle partite non è certo cosa di tutti i giorni. Si respira sicuramente il glamour di una grande città. Poi la stampa: quello che ho vissuto là quotidianamente quando, finito l’allenamento, si aprivano le porte a una folta schiera di giornalisti, qua a San Antonio l’ho visto solo per la finale di Conference. Una questione numerica, oltre che di grande interesse. Inoltre, la presenza di Kobe Bryant generava un’attenzione dei media spasmodica”.
A proposito di Kobe, che tipo è, lei che l’ha vissuto da vicino?
“Uno dei miei primi giorni, Kobe venne in ufficio a salutare gli allenatori. Si rivolse a me in italiano dandomi il benvenuto con grande enfasi: fu come un’investitura, gli sono grato per questo gesto. Durante l’anno parlammo molto, lui ha una conoscenza stupefacente del mondo della pallacanestro, anche di Eurolega. Un esempio: durante un allenamento Mike Brown ed io pensavamo ad uno schema per un suo tiro. Kobe eseguì e commentò così: ‘Questa lo facevi con Ginobili alla Virtus!’. Si ricordava perfettamente di un banale movimento che usavamo a Bologna per creare spazio per l’uno contro uno di Manu. La sua comprensione del gioco era incredibile, notava dei dettagli che tu stesso allenatore faticavi a vedere”.
Quei mesi a Los Angeles si rivelarono un’esperienza positiva?
“Furono dei mesi bellissimi. Stavo attraversando un periodo molto difficile e triste nella vita e riuscii a recuperare un minimo di tranquillità familiare. Tensioni zero, ambiente da cinema! Io scherzo ancora con mia moglie, ricordandole quando la beccai che chiacchierava con Antonio Banderas. Durante una partita allo Staples Center si era avvicinata per chiedergli un autografo. Lui le rispose in italiano e così iniziarono a parlare. Quando rientrai in campo per il secondo tempo un mio collega mi disse: ‘Ma tua moglie sta parlando con Banderas!’ (risata). Poi c’era sempre il sole, abitavamo in una casa vicino al mare: tutti ingredienti che trasformarono quel soggiorno in un’autentica terapia positiva”.
Ha avuto anche modo di ricredersi su tanti luoghi comuni che viaggiavano in Europa sull’Nba?
“Assolutamente. Il primo è che i giocatori Nba non fanno niente. La realtà invece è che mettono un’attenzione spasmodica sul miglioramento individuale. Da una parte ci sono gli atleti che vogliono farlo per rimanere nella Lega. Noi finiamo la partita la sera e alla mattina alle 9.30 gli uomini dall’ottavo al quindicesimo sono in palestra che fanno fondamentali, tecnica, tiro, pesi. Dall’altra ci sono i giocatori che vogliono diventare i più bravi tra i più bravi. Faccio un esempio: Kawhi Leonard lavora tutta l’estate per aggiungere un movimento al suo repertorio offensivo. A San Antonio abbiamo due allenatori che si occupano del cosiddetto player development, sviluppo del giocatore, e non solo durante la stagione. D’estate ognuno ha il suo programma: settimane di riposo alternate con periodi di allenamenti con un coach che li raggiunge dove si trovano per lavorare due o tre ore al giorno. Qua non esiste che un giocatore stia fermo due mesi: il concetto ‘se non miglioro individualmente rischio di non essere più di alto livello’ in America è ben radicato”.
Altri esempi?
“L’allenamento di squadra è molto limitato per il numero spropositato di partite. Allora, per esempio, si fa video, oppure un allenamento con meno contatto fisico, o con contatto guidato. In pratica ci si concentra più dal punto di vista mentale che fisico. Ma alla fine un giocatore sta in palestra quattro ore al giorno, mentre in carriera, in Europa, mi è capitato di faticare perché alcuni investissero il tempo per fare le terapie necessarie. Qua si prendono cura di loro stessi, c’è un livello di professionalità veramente molto elevato. E questo adesso si verifica anche in Eurolega, dove tutti sono alla ricerca di un modo per bilanciare la necessità di allenarsi e allo stesso tempo salvaguardare le energie per le quattro partite da giocare in una settimana”.
Ma come andò quella volta che a Mosca il suo Cska inflisse ben 19 punti ai Los Angeles Clippers, la più pesante sconfitta internazionale di una squadra Nba?
“Fu un autentico evento per i russi! Da campioni dell’Eurolega in carica invitammo una franchigia Nba e arrivarono i Clippers, che avevano fatto solo pochi giorni di training camp. In squadra avevo giocatori del calibro di Langdon, van den Spiegel, Vanterpool, Papaloukas, Smodis e, con già un mese di preparazione sulle gambe, correvamo come delle schegge. Morale della favola, vincemmo alla grande. Per il pubblico russo fu come aver vinto la terza guerra mondiale: cappelli per aria, gente chi si abbracciava, una felicità incredibile! Mi ricordo benissimo la prima fila del parterre dove erano schierati una quindicina di ‘generaloni’ tutti con una divisa coperta di stelle e riconoscimenti”.
È vero che per descrivere Kevin Durant ha preso in prestito una frase coniata da un suo compagno di squadra ai tempi della Reyer?
“Come no, dal mitico Lovadina: ‘Squadra non gira, schema non quadra, dare me palla, due punti sicuri’. Era un mio compagno nelle giovanili, lui del ‘58 io del ‘59. Ogni tanto mi facevano giocare, o meglio stare in panchina, con quelli più grandi. E Lovadina era il playmaker di quella formazione: 1.90, forte fisicamente, molto bravo. Lui aveva coniato quella frase, e quando scherzando faceva il gradasso la ripeteva come un mantra”.
Alla fine, è questa l’essenza della superiorità degli americani?
“Be’, non solo degli americani. È anche l’essenza della superiorità di un Danilovic, di un Petrovic e di tutti i giocatori di questo livello. Parlo dei campioni che, quando si accorgono che sta andando tutto a rotoli, prendono in mano la situazione e la risolvono. È la fiducia in se stessi, la capacità tecnica, lo strapotere fisico, cioè un mix di qualità tali che dà a questi grandi atleti un senso di onnipotenza”.
Oggi, da spettatore, che giocatori le piace vedere, dopo aver allenato così tanti campioni?
“Mi affascinano i giocatori che hanno un grande strapotere fisico. LeBron James, per esempio, visto da vicino è una cosa impressionante. Ma se dovessi sceglierne uno, essendo io europeo di formazione e di convinzione, dico Klay Thompson. Non è un atleta così esplosivo da schiacciate spettacolari, però è sempre in equilibrio, tira rapidissimo, difende, sa passare benissimo la palla”.
A proposito di tutte le stelle che ha nominato, lei ha allenato all’All Star Game, nella partita rookie vs sophmore, e ha fatto il vice di Popovich nell’All Star Game vero e proprio.
“Devo fare una premessa: in Europa la mia statistica di allenatore negli All Star Game è di una vittoria e dieci sconfitte. L’unico successo fu nel 2003 nella sfida americani contro Nazionale italiana. Io avevo gli americani, tra cui l’ineffabile Vanterpool, uno che non voleva perdere neanche se giocava a Monopoli. Eravamo sotto contro gli azzurri di Recalcati, una bella formazione, ma gli americani, non volendo sfigurare, si misero a giocare sul serio e si vinse. In tutte le altre occasioni ho sempre perso, e quest’ultima volta nella Nba non ha fatto eccezione. In allenamento si fa un po’ di tiro, si provano un paio di movimenti che poi puntualmente non vengono eseguiti. In partita nessuno difende veramente, forse per paura di farsi male; poi bisogna riuscire a far giocare tutti. Io cerco di stabilire prima di tutto un rapporto personale con questo gruppo di ragazzi, per fargli capire che hanno una sorta di responsabilità verso tutti quei giovani che li guardano, magari sognando un giorno di diventare come loro. In definitiva, in queste esibizioni mi sento ‘inadeguato’, perché mi manca la tensione competitiva e quindi non so bene in che direzione provare a spingere la squadra”.
E coach Popovich come ha gestito l’impegno?
“È riuscito a stupirmi ancora una volta! Ecco cosa si è inventato: ‘Bene ragazzi sono onorato di essere qui e di allenarvi - ha detto nel suo discorso -. Stasera facciamo così: ad ogni time out ognuno di voi disegnerà uno schema’. E così è andata: i giocatori si sono dati il cambio con la lavagnetta in mano. C’era chi ha tirato solo due righe e chi ha pensato qualcosa di più completo, ma comunque tutti erano completamenti coinvolti. Così è riuscito a catturare l’attenzione del gruppo e a farlo diventare competitivo ma nel modo giusto, non esagerato. Tra l’altro abbiamo pure vinto”.
Tra numeri e statistiche si sta raggiungendo un livello di specificità incredibile. Come si rapporta a questa mole di dati?
“Io per la verità mi diverto molto: quando preparo le partite posso chiedere i dati più incredibili. Dobbiamo difendere il pick and roll? Allora chiedo le statistiche degli esterni avversari quando tirano dal palleggio o da fermi. Bisogna imparare a saper cosa domandare per avere le risposte che ti servono, e io in questo guardo molto ai miei colleghi che hanno più dimestichezza di me. Per quanto riguarda gli Spurs, molto si basa sull’efficienza di quello che facciamo in attacco. Le discussioni sono aperte: più gioco di post basso o più pick and roll? Più pick and roll all’inizio o alla fine dell’azione, più centrale o di lato? E queste sono tutte informazioni che ti aiutano, sono interessanti, ti permettono di maneggiare il gioco. Il resto, se diventa troppo sofisticato, è faticoso da seguire anche per noi”.
Palmares alla mano, si sente di essere il più grande allenatore europeo di tutti i tempi oppure come dicono in America “italian coachin legend”?
“Quella del più grande non prendiamola neanche in considerazione, mi sembra una barzelletta! Mentre confesso che quando mi scrivono del ‘coachin legend’ un po’ mi fa piacere. Ma vi svelo questa cosa: Kobe mi chiamava ‘the fucking legend’, e sghignazzava come un matto!”. (risata)
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Giganti # 4 (febbraio 2018) | Pagina 8-27