Una locomotiva chiamata Brugnaro

Una locomotiva chiamata Brugnaro

La trasmissione dei valori, la voglia di intraprendere e di anticipare le tendenze: dal ruolo dei servizi quale booster per l’impresa manifatturiera moderna, all’anticipazione di un modello di rapporto scuola-impresa solo oggi implementato. Gli ideali, gli obiettivi, la personalità e gli aneddoti sull’infanzia. La determinazione quale forza motrice di crescita. La dimensione “privata” del suo quotidiano. gli affetti e le sue passioni

Chi lo conosce da più tempo racconta di lui poco più che bambino che, raccolti tre o quattro amici, mette su una specie di impresa imperfetta, fa il giro del quartiere suonando ai campanelli delle villette chiedendo ai proprietari se avessero bisogno di ridipingere la cancellata. Poche lire, ma, in quella voglia di fare impresa c’era già tutto. E c’è chi aggiunge che quella forza, quella voglia di inventare, di costruire, di organizzare, gli siano rimaste attaccate addosso anche oggi.

“Eravamo in quattro, tutti ragazzi della strada in cui siamo cresciuti, c’era anche mio fratello Gabriele, a Spinea. Era l’estate del ’76 e non avevo ancora 15 anni. Mi è sempre piaciuto costruire le cose e organizzare le persone, motivarle, convincere della bontà delle mie imprese. E quella era una vera e propria impresa. Avevamo comperato la carta vetrata, l’antiruggine, la vernice verde, i pennelli, l’acquaragia. E chiedevamo semplicemente ai proprietari delle casette del quartiere se avevano bisogno di pitturare il cancello. Eravamo determinati, lo facevamo anche per gioco, per misurare la nostra abilità di fare, di intraprendere qualcosa di importante. Non tanti soldi, ma vi assicuro che quelli guadagnati, valgono 10 volte di più. Suonavamo i campanelli e ci proponevamo. Ci mettevamo la faccia, perché quella era tutta gente che conosceva la nostra famiglia e ci si ritrovava in chiesa la domenica mattina. Era un’anteprima, perché nel corso della mia vita ne avrei suonati tanti altri di campanelli. All’inizio erano quelli per proporre le pentole la sera, durante il periodo dell’Università, quando non andavo a “fare la stagione” o i fine settimana nei ristoranti e negli alberghi come cameriere; poi quelli delle aziende del territorio, alle quali proponevamo, con il nostro spirito di pionieri e il nostro entusiasmo, la ricerca di personale".

“Molti lavori, durante e dopo l’università, sfide appassionanti, aiutante durante le aste televisive di quadri e gioielli, art-director nel marketing per varie aziende, piccoli progetti di architettura, ma anche l’organizzazione di bellissime feste con gli amici di sempre Paolo, Silvestro e Renato, oltre a mio fratello Gabriele. Proprio con i guadagni di queste feste ci siamo comprati il primo gommone a motore per andare tutti insieme in Croazia, che all’epoca faceva parte della “mitica Jugoslavia”, ma per noi comunque sempre la nostra cara Istria. Proprio con Paolo, Silvestro e Gabriele abbiamo iniziato, con Everap, a cercare agenti di commercio per le aziende e a costruire reti commerciali in tutta Italia".

“Negli anni successivi ho fondato Umana e ho cominciato a confrontarmi con multinazionali del settore che avevano già grandissime dimensioni e soprattutto una sostanziosa esperienza negli Stati Uniti e nel resto dell’Europa, nazioni in cui l’interinale era regolato da molti anni. Ma non avevamo nulla di cui aver paura. Dovevamo solo farci conoscere dai clienti per quel che eravamo e soprattutto per quello che sapevamo fare, con grande umiltà e rispetto delle varie ‘filosofie aziendali’. Pian piano quel nostro essere italiani, più bravi, più disponibili, più duttili e più vicini alle esigenze delle imprese, fece la differenza. Abbiamo creduto nel modello partecipativo dell’impresa e nel suo ruolo sociale. Siamo sempre stati convinti difensori del lavoro legale e trasparente, rispettoso dei diritti e della dignità ‘umana’ declinando la flessibilità buona, quella che rende forte e competitivo il sistema delle imprese. Negli anni abbiamo continuato a crescere e a ottenere la fiducia delle aziende”. Oggi è una holding che raggruppa 23 aziende attive nel campo dei servizi, della manifattura, dell’edilizia, dello sport e dell’agricoltura. L’agenzia per il lavoro Umana è divenuta in pochi anni leader del settore con 140 filiali operative in Italia, 8 uffici in Brasile e circa 1000 collaboratori diretti. Nel 2019 ha impiegato mediamente 25 mila lavoratori ogni giorno e superato i 720 milioni di euro di fatturato".

“Non chiedetemi però come stia andando oggi nel dettaglio. Per dimostrare tutto il mio amore per Venezia, la mia città, ho voluto costituire, infatti, primo in Italia, a dicembre 2017 e pur in assenza di una legge specifica, il “blind trust”. È un’operazione abbastanza frequente nel mondo anglosassone, con la quale voglio mettere a tacere chi solleva il problema del presunto “conflitto d’interesse” e della “trasparenza” nella mia azione amministrativa. Con il ‘blind trust’, non ho alcuna possibilità di controllare o influenzare le scelte del gruppo. La gestione è lasciata al “trustee”, sotto il controllo e la supervisione dei “guardiani”, che, in base alla loro esperienza, possono guidare il gruppo verso il successo. Fintanto che io deterrò un incarico pubblico, non avrò accesso ad informazioni non pubbliche riguardanti i beni conferiti nel trust, inclusi gli affari e le strategie delle società”.

Si dice che chi nasce in famiglie modeste e magari di provincia si porta sempre appresso quella forza che permette di affrontare la vita come se non dovesse esserci mai una fine. Una forza che porta chi fa impresa al successo. Come era Luigi Brugnaro da piccolo.  

“Provengo da una famiglia semplice e la mia storia è quella di molti altri ragazzi della provincia veneta della fine degli anni ’60. Spinea, in provincia di Venezia, era un comune in forte espansione. A metà degli anni Sessanta, le aree agricole accanto alle poche ville venete si trasformavano in quartieri urbanizzati per gli operai e gli impiegati che lavoravano a Porto Marghera. Arrivammo qui, in via della Repubblica, una strada lunga sì e no 400 metri, con un solo piccolo condominio beige di 12 appartamenti, che ricordo sembrava svettare fra le orgogliose villette con piccolo giardino. Al terzo piano di quel piccolo condominio abitano ancora i miei, Maria e Ferruccio.

In pochi anni si riempì di famiglie e di ragazzini chiassosi che fermavano il pallone da calcio appena passava una macchina. Non c’era nemmeno una vera scuola elementare, erano più che altro degli spazi ricavati da ex negozi della zona, ma le medie si facevano alla Vico, una scuola fra i palazzi del Villaggio dei Fiori, uno dei nuovi quartieri urbani. Poi il Liceo a Mirano, al Majorana. Scientifico. Credo di essere stato uno dei pochi di quei ragazzi di via della Repubblica a frequentare un liceo. Molti preferirono andare a lavorare, altri a frequentare qualche istituto tecnico. A Mirano andavano i benestanti, e al Majorana, che era, a quel tempo, in una villa veneta, Villa Belvedere, le famiglie dei notabili della zona. Ero un contestatore, protestavo perché non c’erano i laboratori di chimica o le attrezzature per imparare le lingue, coinvolgevo gli altri ragazzi, organizzavo e partecipavo alle manifestazioni studentesche locali. Sostenevo e difendevo le mie idee, sempre collegate a un mio personale senso di giustizia sociale, credevo già allora nella libertà che ciascun giovane ha il diritto di conquistarsi, prima di tutto con l’autonomia finanziaria dai genitori attraverso il lavoro. Il proprio lavoro! E il lavoro dev’essere un’opportunità concessa a tutti, ma che va onorata con il massimo impegno, sia da parte delle imprese sia dalla parte del lavoratore. Quando poi il lavoro non piace o non soddisfa, se ne cerca un altro migliore, ma sempre con grande serietà. D’estate e durante le vacanze scolastiche andavo a lavorare, l’ho fatto anche prima dei 16 anni. Il primo lavoro regolare, nell’estate del ’77.

Facevo il cameriere al Ristorante Roma, giù del Ponte degli Scalzi a Venezia. Prendevo l’autobus tutti i santi giorni da Spinea. Mi sembrava un viaggio lunghissimo. Alla fine di quell’estate ero esausto, ma ho imparato tantissimo. E con quei pochi soldi messi da parte mi comprai la mia prima Vespa. La mitica ET3 blu. Fu una gioia straordinaria, e non solo perché diventavo libero di muovermi, ma perché quei soldi erano il frutto della fatica del lavoro. E non c’è cosa più importante che rendersi liberi con le proprie forze”.

“In quegli anni, insieme ad alcuni ragazzi, fondai Radio Cooperativa, una radio storica del territorio. Era il periodo delle radio libere, delle contestazioni. Quello era un ambiente di sinistra, vera sinistra ed io, figlio di una maestra cattolica, e di un operaio sindacalista della CISL, cercavo di affermare il mio pensiero critico anche lì, in quell’ambiente che non mi apparteneva. Una cosa è certa: non ho mai accettato alcuna tessera politica, non l’ho mai fatto in tutta la mia vita.

Ho sempre lavorato e studiato. Prima, durante il liceo, poi, per mantenermi, anche negli anni dell’università. Lo considero un perno fondamentale della crescita di ogni ragazzo. Il lavoro ti consente di imparare i linguaggi dell’impresa, il pragmatismo che troverai nel futuro in qualsiasi azienda. Anche semplicemente per una crescita personale. Da sempre ho sostenuto il tema dell’alternanza e, ancor di più, lo faccio oggi che è diventata una legge ed è un progetto sostenuto da Confindustria. Avvicinare gli studenti al lavoro, imparare facendo, arricchisce ogni giovane perché gli dà l’opportunità di conoscere quale strada intraprendere, gli consente di individuare il suo talento, le sue passioni e gli trasmette quei valori positivi che derivano dalla cultura dell’impegno e del sacrificio. Gli fa conoscere un mondo che non ha mai visto e che si troverà ad incontrare di lì a poco”.   

Suo padre, Ferruccio Brugnaro, ha una storia importante di operaio in fabbrica, di sindacato e di lavoro. A Porto Marghera si distinse per le sue lotte per i diritti dei lavoratori e per la sua attività di poeta riconosciuta a livello internazionale. “Sono un comunista non dogmatico”, diceva qualche tempo fa di sé in un’intervista. Parlate mai della sua azienda?

“Ne abbiamo parlato, ne parliamo. Condivido ancora, con i miei genitori, le decisioni che prendo. L’ho fatto anche quando ho deciso di candidarmi a Sindaco. Ho chiesto il loro parere. Ne ho tenuto conto, e poi, come sempre, ho fatto di testa mia. Mio padre, penultimo di dieci fratelli, ha lavorato una vita alla Montefibre come operaio. Lui è stato educato culturalmente dai Padri Saveriani, un ordine missionario, a Zelarino nella loro sede storica di Villa Visinoni, dove oggi c’è ancora una struttura importante della Curia Patriarcale. Lì ha potuto avvicinarsi alla letteratura e alla musica classica. Mia madre Maria, invece, da giovane insegnava come volontaria nelle colonie Pontificie al Lido di Venezia. Lei e papà si sono sposati nel 1960 con una cerimonia che è stata celebrata addirittura dal vescovo ausiliario di Venezia Mons. Giuseppe Olivotti. Papà era entrato in fabbrica da giovane, come tanti altri suoi coetanei nel dopoguerra: quella era la Porto Marghera degli anni ’60 e ’70 in pieno sviluppo occupazionale, con le sue pesanti e profonde contraddizioni. Da sindacalista della CISL, da uomo libero e progressista, condusse le sue battaglie contro la chimica cattiva dei veleni, che non teneva conto delle persone, dei loro diritti, delle loro vite. Combatteva con la parola, distribuiva ciclostilati con le sue poesie, che poi divennero letteratura, pubblicata e studiata in tutto il mondo. Ma quel che ha fatto è stato infondere in noi, i suoi figli, il senso del rispetto assoluto nella persona, nella vita più in generale e nella libertà del pensiero. Il mondo che ha visto lui e che ha combattuto, ora non esiste più. È anche grazie alle sue battaglie che quelle fabbriche così inquinanti in Italia non esistono quasi più. Oggi, anche ad omaggiare il suo impegno, ho posto al centro dell’azione amministrativa il rilancio del sito produttivo di Porto Marghera, 2.200 ettari, altamente infrastrutturati, in uno dei terminali della Via della Seta marittima dalla Cina all’Europa. Abbiamo riportato investimenti e posti di lavoro. Ora possiamo giocarci le nostre chance, perché la nuova competizione si gioca non più tra Stati ma tra aree metropolitane”.

In un’intervista Ferruccio Brugnaro diceva che la fabbrica lo allontanava dalla famiglia e che in casa, all’epoca c’era Maria, sua madre. Che rapporto aveva e ha con lei.    

“Mia madre Maria è sempre stata una donna forte, attiva. La sgrido ancora oggi, a più di ottant’anni, perché gira con la sua Renault 4 rossa e non vuole cambiarla. Insegnava alle elementari, in una scuola di provincia che ha visto crescere intere generazioni. E chi non l’aveva come maestra, l’aveva conosciuta come insegnante di catechismo, nella parrocchia di Santa Bertilla a Spinea. Era lei che portava i miei giocattoli a scuola e quando un giorno l’ho scoperto, mi disse che ci sono bambini ‘meno fortunati’.

Mia madre è stata il pezzo forte della famiglia, è lei che faceva fare i compiti a mio fratello Gabriele e a me. Era lei che ci sorvegliava quando litigavamo o facevamo i capricci. Mia madre è figlia unica ed è rimasta orfana a sei mesi per un incidente che si è portato via i suoi genitori. Era di notte, una fuga di gas in casa a Mestre mentre dormivano. Si spense la fiammella di una di quelle prime caldaie autonome che venivano installate in quel tempo. Mia madre si salvò per miracolo ma i suoi genitori, Luigi e Ettorina, persero la vita togliendole la fortuna di sapere quanto sarebbero stati bravi come nonni. Ancora oggi penso che sulla figura di mia nonna materna ci sarebbe da aprire un capitolo a parte: una donna speciale, anche lei figlia unica e amministratrice di grande carattere in una fabbrica di carpenteria metallica di soli uomini che, nel primo Novecento, costruiva, in principio, carretti e, successivamente, i primi cassoni per i camion.

Tutto questo succedeva a Mestre, proprio vicino a Piazza Barche. Mia mamma venne poi cresciuta dalla nonna paterna a Zelarino assieme agli zii e cugini che le hanno dato tanto amore. Ma l’amore, quello vero straordinario e unico, l’ha trovato in mio padre: una vita felici assieme, una vita d’amore. Ancora oggi innamorati e sorridenti, belli da vedere”.

Perché scelse la facoltà di architettura?  

“C’è stata un’epoca, nel Rinascimento, in cui i cantieri edili li chiamavano Fabbriche. L’architetto, per esempio Brunelleschi, non era solo il visionario, ma anche l’ingegnere, il capomastro, l’organizzatore delle maestranze e l’economo, quello che teneva i conti e il bilancio dell’opera. Organizzava e comandava il lavoro. Credo ci sia molto di quell’architettura, nella mia indole. La voglia di fare, di costruire, di intraprendere credo sia innata in me. Da questa spinta nacque la prima azienda, intorno alla metà degli anni Ottanta, insieme a mio fratello e a due miei amici, Paolo e Silvestro. Con gli amici di sempre, con cui anche oggi lavoro, ideavamo e costruivamo reti commerciali per le aziende. Intuizione, lavoro duro, giorno dopo giorno, senza mai oltrepassare il segno o fare il passo più lungo della gamba, investendo tutto quello che guadagnavamo nell’azienda. Guardando avanti e possibilmente lontano. Con umiltà, senza invidiare il successo degli altri ma gioendo, assieme ai miei collaboratori, per il nostro lavoro e per i nostri risultati. Così conoscemmo nel tempo tante altre persone, tutte speciali, una diventerà anche molto “speciale”, Stefania. Nasce così il Gruppo Umana.

Una facoltà che mi è servita poi anche nell’avventura di Sindaco. Aristotele scriveva, infatti, che “la politica è scienza architettonica massima”. Ed ora mi trovo a governare Venezia per la seconda volta. Per me è un onore, lo faccio gratis, ma forse dovrei anche pagare per questa esperienza perché è la Città più bella del mondo. Non è facile amministrarla, ma quando ho deciso di candidarmi l’ho fatto perché non potevo più girarmi dall’altra parte.

Ho chiesto scusa a Stefania, l’amore della mia vita, e ai miei figli. L’ho fatto perché sapevo che sarebbero stati attaccati e che avrei sottratto loro del tempo, ma dovevo farlo. Dal 2015 ad oggi la città è decisamente migliorata. Chi protesta ci sarà sempre, ma la maggioranza dei cittadini, quella silenziosa, ci ha chiesto di continuare a lavorare in questa direzione, riconfermandoci alla guida della città alle elezioni del 21 settembre. “Questa è la strada che dobbiamo continuare a percorrere. Il mio sogno? Fare in modo di abbassare il debito pubblico che, inevitabilmente ricadrà sulle spalle dei bambini e delle generazioni future”.

Quali sono le passioni di Luigi Brugnaro?  

“Devo dire che, da quando faccio il Sindaco, riesco a ritagliare ben poco del mio tempo alle passioni. Ma il mare mi è rimasto sempre addosso. La passione per la barca, per l’acqua, per i suoi silenzi, per l’orizzonte e per lo spazio aperto che solo nel mare aperto ritrovo. A Mestre, negli anni scorsi, ho provato a rilanciare anche una scuola di Vela, il Vela Club, che aveva anche una discreta flotta di barche a disposizione dei ragazzini per farli imparare. Non sono riuscito a darle una stabilità economica, visto che non si credeva abbastanza, a quel tempo, nell’importanza educativa della nautica e del vivere il mare. Sono ancora innamorato della pesca e della caccia. Mi piace fare immersioni, anche se ultimamente ne faccio di rado. In barca appena possibile, navigo in Istria e lungo tutta la costa Dalmata, luoghi straordinari della nostra storia Veneziana. Vado a sciare con i miei figli quando posso praticamente qualche giorno all’anno, ma gli impegni sono tanti per concedersene altri. L’altra passione che non si è mai esaurita è quella per la terra, per l’agricoltura. Ricordo che a 15 anni mi piaceva passare interi pomeriggi a dare una mano ad un contadino di Mirano, a qualche chilometro da casa mia. Così, per passione. Da quell’uomo respiravo l’amore per la terra, per i frutti che riesce a dare se rispettata e lavorata bene. Quella sapienza antica degli uomini semplici che si sporcano le mani e che sono la quintessenza della saggezza e della nobiltà. Ricordo che passavo i miei pomeriggi a parlare con quell’uomo. La passione per l’agricoltura mi è rimasta dentro ed è anche quella che mi ha guidato quando Torello, il papà di Stefania, mi propose di acquistare dei terreni che erano in vendita. È nata così l’Azienda agricola San Giobbe, in Val di Chiana. Una bella tenuta, tra campi coltivati, colline, laghi, boschi. Un’area magnifica quella fra Toscana e Umbria, la terra della Chianina, mucca nobile e straordinaria che alleviamo e vendiamo. È un bel progetto di economia circolare, dove sperimentiamo il “ciclo chiuso” ed abbiamo ricominciato a far nascere i vitelli, cui diamo da mangiare esclusivamente quello che produciamo nella fattoria, il fieno e le granelle, prodotte direttamente con il mais, la soia e l’orzo che coltiviamo. Nessun fertilizzante che non sia il concime prodotto dai nostri capi di bestiame; tutto certificato e trasparente. Un progetto avveniristico e utopistico. Un sogno per un nuovo modo di alimentarci, tutto assolutamente salutare, naturale, verificabile e sicuro. È la terra dove è nata Stefania e dove vive ancora la sua famiglia. Per questo l’ho subito sentita terra anche mia”.

Stefania, in ogni discorso pubblico la cita...  

“É vero, e c’è chi mi rimprovera per questo. Ma non mi interessa. Vede, alla fortuna bisogna render merito. Chi incontra l’amore è la persona più fortunata del mondo. E non mi vergogno a ribadirlo ogni volta che posso. Stefania è la cosa più bella che mi potesse capitare; una donna bellissima, soprattutto dentro.

La storia con Stefania meriterebbe un libro dedicato, tanto ci sarebbe da raccontare e da narrare. Stefania l’ho conosciuta per caso una sera alle 22 al telefono facendo la prima ricerca di personale che dovevo assumere per aprire Umana. Credo che le sarò sembrato uno strano che lavora come un forsennato fino a notte, ma forse è stato il caso che ci ha fatto incontrare.

Da quella volta abbiamo lavorato assieme con grande impegno e serietà per anni nel costruire Umana finché un giorno, durante uno di quei periodi della vita in cui ti senti abbastanza solo e abbacchiato, mi è venuto in mente di scrivere su un foglio l’elenco dei miei veri amici e ho scoperto che l’unico nome femminile che avevo inserito nella lista era il suo. Visto che non ho mai creduto all’amicizia tra uomo e donna, mi sono allarmato e ho capito che mi stava succedendo qualcosa che non avevo calcolato e soprattutto non avevo previsto. Era un periodo complicato per me e da quel momento credo di aver vissuto la parte più importante e forse più difficile della mia vita.   

Nei sei anni successivi mi sono prima separato e poi ho divorziato da Cristina, la mia prima moglie, una donna buona e sensibile che senza volere ho fatto soffrire e con la quale oggi ho un ottimo rapporto. Beh, tagliando corto, mi ero innamorato e ancora non lo sapevo. Stefania, in svariate occasioni, mi ha lasciato e ripreso. Eravamo all’inizio del nostro rapporto, ci stavamo conoscendo e abbiamo passato ogni genere di avventura assieme. Un bel giorno quando pensavo mi avesse abbandonato definitivamente e mi ero quasi rassegnato a vivere da solo con il cuore infranto, lei si presentò alla mia porta e mi chiese se la volevo ancora.

Accadde come nelle fiabe che ti leggevano da bambino e che, come per magia, si concludono con quel bellissimo messaggio d’amore: ‘...e vissero felici e contenti’. Ecco questo è ciò che ci è capitato e che ci sta accompagnando giorno dopo giorno. Da allora Stefania conobbe i miei due primi figli Valentina e Andrea che ama alla follia, e ha dato alla luce altri tre bambini meravigliosi, Piera Maria, Jacopo ed Ettore. A Stefania, al suo ardore, al suo sorriso, alla sua onestà, alla sua generosità devo veramente tanto, nella vita, nel lavoro e in politica. Auguro a tutti di incontrare un amore così grande, ma, soprattutto, di saperlo riconoscere. Abbiamo detto di quel che dovrebbe fare il pubblico per l’impresa. Ma cosa dovrebbe fare invece l’impresa per il pubblico? Quando il 29 gennaio 1996 andò a fuoco il Teatro La Fenice di Venezia, tutta la città, anzi, tutta l’Italia e il mondo intero, trascorsero giorni di grande apprensione.

Un pezzo della nostra storia, un giacimento di cultura, arte e bellezza, in una notte, era andato perduto. La mattina all’alba convocai i vertici del Gruppo. Dovevamo fare qualcosa per sostenere ancora di più il Teatro rispetto a quanto, già da anni facevamo. In quel momento serviva un sostegno maggiore: il Governo aveva appena consentito di realizzare una Fondazione e così noi, insieme ad altri privati e ad altre Istituzioni, entrammo tra i soci fondatori del Teatro La Fenice. Lo dovevamo alla città e alla nostra storia. Oggi il Gran Teatro La Fenice è l’orgoglio italiano nel mondo non solo per la sua bellezza o per la ricchezza dei suoi cartelloni concertistici, operistici e di balletto, ma anche perché dimostra, anno dopo anno, di essere in salute dal punto di vista economico.

Di questo non posso che esserne fiero soprattutto visto che, oggi, essendo Sindaco della Città, ne sono addirittura il Presidente di diritto. Il primo gennaio di ogni anno, con il tradizionale concerto, abbiamo l’onore di fare gli auguri in diretta Rai a tutta Italia, superando, in questi ultimi anni, la concorrenza con i valzer viennesi. L’impresa respira il territorio in cui nasce e cresce. Ne condivide gli umori, la cultura, il tessuto sociale. Sono convinto che se un’azienda cresce rigogliosamente sia in parte merito anche delle radici che la ancorano al terreno. E credo che quell’energia della quale si è nutrita debba essere restituita, quanto possibile, in termini di aiuto concreto verso le istituzioni pubbliche, di sostegno morale, di condivisione delle tante progettualità che è capace di esprimere.

Si chiama responsabilità sociale. Nella mia vita ho sempre avuto uno sguardo verso chi è stato meno fortunato, ai tanti che sono ancora alla ricerca di un lavoro, alle tante famiglie perbene che faticano ogni giorno. Non chiedetemi però di dire che cosa ho fatto come azioni di aiuto sociale o caritatevole: questo aspetto lo voglio tenere riservato per me perché quando si fa del bene, lo si fa in silenzio.

E, soprattutto, bisogna farlo senza secondi fini e senza pretendere nulla. Chi ha avuto fortuna deve poterla condividere. Su questo argomento ognuno deve fare e farà i conti con la propria coscienza. Io ho sempre creduto in questa terra e al cuore di questa gente e, appena ne ho avuta l’occasione, ho fatto. Fare impresa, per me, vuol dire anche questo”.

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Giganti # 1 (gennaio-febbraio 2021) | Pagina 6-17

Marco Taminelli

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