Istanbul 1959, XI edizione

Istanbul 1959, XI edizione

I patti erano chiari. Tutto doveva essere in funzione dei Giochi di Roma del ’60. Tutto! Collegiali, amichevoli, tornei; anche le manifestazioni ufficiali come il campionato europeo. Partecipare sì, cercare di ben figurare anche. Ma se proprio su un obiettivo bisognava concentrare sforzi e aspettative, non c’era che da rivolgere lo sguardo all’evento olimpico, per la prima volta ospitato in Italia. Dal gennaio del ’57, da quando era stata affidata la Nazionale a Nello Paratore, la missione era questa. Sicché anche il misero decimo posto di Istanbul, uguale fotocopia a quello di due anni prima a Sofia, venne accolto con una semplice smorfia di disapprovazione e nulla di più. 

In questo percorso di avvicinamento verso la “città eterna”, trovare continuità era una impresa. Un po’ perché bisognava procedere al ritmo di sperimentazioni, tra l’inserimento di un giovane e la richiamata di un veterano; un po’ perché le società del massimo campionato e la Federazione continuavano a litigare su varie questioni, e spesso finiva col rifiuto da parte delle prime – mascherato da una scusa ufficiale di “indisponibilità” – a concedere i giocatori convocati. La conseguenza fu che, rispetto all’edizione precedente degli Europei, nella formazione italiana c’erano solo tre conferme su dodici giocatori: Alesini, Conti e Volpato. Mancavano Gamba e Sardagna (oltre a Riminucci che era stato presente nel ’53 e nel ’55). Rispolverati Canna, Calebotta e Lucev. Spazio a sei giovani emergenti: il brasiliano naturalizzato Enrico De Carli (secondo oriundo della storia azzurra, dopo Mike Pelliccia), i due metri Giovanni Gavagnin e Claudio Velluti, il regista Gianfranco Pieri, i tiratori Gianfranco Lombardi e Gabriele Vianello.

Se consideriamo i nomi, non si può dire che fosse una squadra rimaneggiata, visto che molti – di questi nomi – li avremmo poi ritrovati tra i protagonisti dell’Olimpiade dell’anno dopo. Ma a quell’appuntamento in Turchia arrivò in condizioni di forma precarie, forse era già mentalmente proiettata verso altri obiettivi. E poi ci mise la coda il diavolo, che nella circostanza prese nuovamente le sembianze della Francia: così come avvenuto due anni prima a Sofia, bastò che ci battesse nel girone eliminatorio (di soli 2 punti allora, di 3 stavolta) per farci accomodare in una seconda fase che aveva il nono posto come punto più alto da raggiungere. Non contava nulla che loro, i francesi, avessero preso 32 punti di scarto dalla testa di serie URSS e noi soltanto 15; e che dagli scontri con gli altri avversari del girone, Israele e Germania Est, gli azzurri fossero usciti nettamente vittoriosi. Erano i verdetti di una formula impietosa, che si trascinava ormai da cinque edizioni, e che guarda caso cambiò a partire da quella successiva.

Istanbul rappresentò la fine di un ciclo anche per un altro aspetto, decisamente più rilevante e influente. Si giocò ancora una volta – e per fortuna l’ultima – in un impianto all’aperto (l’Inonu Stadium, vicino al Bosforo), offerto in comodato d’uso dal calcio al basket. Il vantaggio di dare spazio a un pubblico quanto più numeroso veniva sempre più sminuito dagli effetti negativi sullo spettacolo in campo. Partite giocate col sole, col vento, alle otto di mattina come alle dieci di sera; era stato montato il parquet, ma bastava un po’ di umidità per renderlo scivoloso. Ci fu addirittura chi, per mantenere l’equilibrio in campo, decise di togliersi le scarpette… Era una pallacanestro fasulla; e che proprio l’Europeo la mettesse in vetrina quando ormai anche i semplici incontri di campionato si svolgevano tutti in palestra – risultava davvero inaccettabile.

Alla fine, comunque, chi aveva più qualità le tirava fuori. E vinceva! Così l’URSS conquistò il suo quinto titolo, bissando Sofia e lanciandosi verso un record di otto primi posti consecutivi, al quale nessuno mai, in futuro, sarebbe stato in grado neanche di avvicinarsi. C’era la forza fisica dei giganti Krūmiņš (2 e 18), Petrov (2 e 10) e Korneev (2 e 08), la classe di Zubkov (eletto miglior giocatore del torneo), la sagacia tattica dell’allenatore Spandarjan, al suo quarto titolo europeo. Tutte vittorie per i sovietici; lo scarto minore, di sei punti, fu quello inflitto alla Bulgaria, che stavolta, lontano dal terreno amico, si dovette accontentare del quinto posto. Formazione da podio si confermò la Cecoslovacchia; argento. Il bronzo alla Francia; che come detto ci aveva battuto di soli tre punti, e alla quale pochi mesi prima avevamo inflitto una batosta in un test match a Parigi.

Recriminazioni che valevano poco, anzi nulla. La convinzione, per gli azzurri, di potersi alla fine trovare al posto dei cugini d’Oltralpe non faceva che confermare i propri demeriti. Dopo la delusione per la mancata qualificazione alle semifinali, Alesini e compagni riuscirono a farsi valere nel girone di consolazione, sconfiggendo nettamente la Spagna, i padroni di casa della Turchia e Israele. A toglierci la magra consolazione del nono posto fu, per soli due punti di scarto, la Jugoslavia, una squadra smaniosa di scalare i vertici del basket continentale, e magari di arrivare alla meta già dalla successiva edizione del torneo, che si sarebbe disputato a Belgrado. Nelle file slave cominciava, tra l’altro, a brillare la stella della ventunenne ala Radivoj Korać, un mito per le generazioni future; in quella edizione esordì come miglior marcatore (28,1 di media, nuovo record della competizione, che avrebbe resistito per quasi trent’anni).

A questo Europeo turco – forse per vicinanza politica più che geografica – fu invitata a partecipare la Nazionale dell’Iran, allora meglio conosciuta come Persia, monarchia governata dallo Scià. Si prese la soddisfazione di vincere una partita, contro l’Austria, dalla quale però fu sconfitta nello spareggio finale, non evitando così l’ultimo posto. Da allora, non si sarebbe più affacciata nell’Europa cestistica.

Da parte sua Paratore, che aveva portato nuovamente a casa un deludente decimo posto, accusava il colpo in silenzio, senza accampare scuse. E intanto annotava sul suo taccuino le caratteristiche dei suoi giocatori, gli errori da correggere, intravedeva moduli di gioco che potevano dare maggiori frutti in seguito. Non poteva farsi demoralizzare dalle difficoltà che incontrava lungo la strada; se mai, disavventure come quella vissuta  in Turchia potevano servire da campanello d’allarme, da stimolo per cambiare qualcosa e impegnarsi di più. C’era ancora un anno di tempo per l’obiettivo che si era prefissato, quello olimpico. Tutto doveva funzionare nel posto giusto e al momento giusto: Roma, settembre 1960!

PIAZZAMENTO DELL'ITALIA 10° POSTO

IL ROSTER: Mario Alesini, Nino Calebotta, Achille Canna, Paolo Conti, Henrique De Carli, Giovanni Gavagnin, Gianfranco Lombardi, Silvio Lucev, Gianfranco Pieri, Claudio Velluti, Nane Vianello, Cesare Volpato, All. Nello Paratore

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Giganti # 10 (agosto 2022) | Pagina 22

Nunzio Spina

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