Il Cairo 1949, VI edizione
Un campo costruito vicino al deserto, le Piramidi sullo sfondo. Il campionato europeo di basket indossò una veste esotica e magica per mandare in scena la sesta edizione, nel maggio del 1949. L’Egitto ormai faceva parte della famiglia, e il sorprendente terzo posto conquistato a Praga due anni prima gli offrì una opportunità davvero unica, grazie alla rinuncia dell’Unione Sovietica, che aveva diritto a ospitare la manifestazione per essere campione in carica, e all’impossibilità da parte della Cecoslovacchia, giunta seconda, di ricandidarsi.
Il Cairo, capitale moderna del più «mediterraneo» degli stati africani, aprì le porte del suo fascino e della sua storia. L’edizione restò memorabile per molti versi, soprattutto per l’inaspettata vittoria dei padroni di casa, ma il successo di partecipazione non ci fu. L’URSS con tutto il blocco orientale disse no, e qui si trattava di boicottaggio politico bello e buono. Altri non se la sentirono di affrontare un viaggio così lungo, o almeno questa fu la loro scusa ufficiale. Per la prima volta rimase a casa anche l’Italia, che in verità si era preparata all’appuntamento, ma la tragedia di Superga (avvenuta il 4 maggio, poco più di una settimana dall’inizio del torneo) aveva gettato tutti nello sconforto. Finì che la partecipazione delle squadre fece registrare il record minimo, appena sette, e di queste solo quattro (Francia, Olanda, le debuttanti Grecia e Turchia) erano europee a tutti gli effetti; per l’occasione, infatti, si erano aperti anche i confini asiatici, a favore del Libano e della Siria.
Forse fu proprio il numero esiguo delle rappresentative a dettare il nuovo cambio nella formula di svolgimento: un girone unico all’italiana (era già successo a Kaunas nel ’39, non sarebbe più capitato in futuro), in cui tutte le squadre si affrontavano tra di loro, la vittoria valeva due punti, la sconfitta uno. Si giocò a Heliopolis, quartiere situato a 12 km dal Cairo, progettato a inizio secolo da un architetto belga, che intendeva farne una perfetta città-giardino, una vera oasi nel deserto. Proprio là venne montato un parquet, l’atmosfera doveva essere davvero particolare. Il successo finale, come anticipato, andò ai cestisti egiziani, i cosiddetti «coccodrilli», per il colore verde della loro maglia, oltre che per la familiarità con l’animale dimorante nelle acque del Nilo. Era ovviamente il massimo che si potesse sperare da quelle parti, ma l’assenza delle avversarie più forti lasciò una lunga ombra sul reale valore del risultato.
Tutto sommato, il mancato confronto lasciò più insoddisfatta la squadra di casa, che già a Praga aveva dato dimostrazione del proprio valore, e là al Cairo avrebbe potuto davvero trovarsi in uno stato di grazia tale da sconvolgere certe gerarchie. La formazione era composta quasi interamente da ufficiali della Polizia; Montasser, Catafago e Tadros i nomi più rappresentativi. Le prime tre partite, con Siria, Olanda e Libano, furono una passeggiata (non meno di 21 i punti di scarto); più combattute le sfide con la Grecia (50 a 39) e con la Turchia (57 a 44), nelle cui file si distinse Hüseyin Öztürk, miglior giocatore e realizzatore del torneo con una media di 19 punti a partita. Si arrivò così allo scontro finale – proprio l’ultima gara prevista da un calendario chissà quanto pilotato – contro la Francia, anch’essa imbattuta fino ad allora e grande favorita per essersi aggiudicata la medaglia d’argento, dietro gli Stati Uniti, alle Olimpiadi di Londra dell’anno prima; la vittoria dell’Egitto fu già una sorpresa, ancor più lo scarto inflitto ai transalpini, 57 a 36 il risultato. Arbitrava l’italiano Vittorio Ugolini, che era anche uno stimato allenatore: da quattro anni, infatti, era alla guida della Virtus Bologna, mentre nel 1937, in Nazionale, era stato al fianco di Decio Scuri agli Europei di Riga.
L’Italia non c’era come detto (Van Zandt si poteva concedere ancora lavoro sui suoi fundamentals), ma di italiano quell’Europeo in Egitto ebbe tanto. Anzi, si può dire che ebbe il protagonista numero uno, cioè l’allenatore della squadra vincitrice, che si chiamava Carmine Paratore, italiano del Cairo, dove il nonno paterno, originario di Catania, si era un giorno trasferito per lavoro. «Nello», come tutti lo chiamavano, era cresciuto a pane e sport, e verso il basket aveva mostrato una tale dedizione da ricoprire nel tempo tutti i ruoli possibili, da giocatore ad arbitro, da dirigente ad allenatore. Nel 1930 aveva fondato, assieme ad altri cinque appassionati, la Federazione Egiziana Pallacanestro, poi si era fatto notare come istruttore di basket, tra i primi a recepire le regole e la tecnica di stampo americano. Eletto assistant coach dello statunitense Harris alla guida della Nazionale egiziana, ne prese il posto all’indomani della débacle dell’Olimpiade di Londra (19° posto); primo obiettivo, appunto, gli Europei in casa, il riscatto era un imperativo. Paratore fu davvero l’artefice di quella impresa; riuscì a convincere i suoi dirigenti a lasciargli la squadra per ben tre mesi di collegiale in un campo militare in pieno isolamento, a dieci km dal Cairo.
Disciplina, sudore, concentrazione: la miscela risultò vincente. Che non si trattasse di una felice casualità lo dimostrarono i risultati che arrivarono da lì in avanti. Alla prima edizione dei Mondiali, in Argentina nel ’50, l’Egitto di Paratore si classificò quinta, ma nel girone finale giunse a pari punti con Cile e Brasile che, per miglior differenza canestri, disputarono lo spareggio per il bronzo. E se per un altro primo posto, ai Giochi del Mediterraneo del ’51 disputati ad Alessandria d’Egitto, si poteva invocare il fattore casalingo, noi italiani ci rendemmo realmente conto del valore della squadra africana – e del suo allenatore – alle Olimpiadi di Helsinki del ’52, quando fummo da loro eliminati nel girone di qualificazione. Ce ne rendemmo conto a tal punto che, pochi anni dopo, qualcuno pensò bene che un allenatore italiano come lui era meglio averlo in Italia…
La Nazionale azzurra rinunciò in extremis alla trasferta in Egitto, in quanto l’Italia dello sport (e non solo) era ancora sconvolta dalla tragedia aerea di Superga, avvenuta circa una settimana prima.
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Giganti # 10 (agosto 2022) | Pagina 15