I sei anni a Superbasket, i più belli della mia vita

I sei anni a Superbasket, i più belli della mia vita

Come in una favola. Da informatico a giornalista del mio settimanale preferito, in una redazione fantastica

Sono entrato nella redazione di Superbasket il 16 agosto 2000. Senza vantare un parente giornalista, una laurea, una benedizione dall’alto. Senza un giorno di gavetta. Senza un’idea di cosa mi attendesse. Mi venne ad aprire Claudio Limardi, il primo giorno dopo le ferie. La redazione era vuota.

Alla mia postazione, il poster della Lazio campione d’Italia. Franco Montorro, che si era battuto per portarmi a SB, conosceva le mie simpatie giallorosse e quanto lo scudetto biancoceleste avesse influito sulla mia scelta di lasciare Roma per Bologna.

Quello fu il mio primo giorno da giornalista praticante, dopo nove anni da specialista informatico. Un mese prima calcolavo la retribuzione di un parroco di Molfetta, un mese dopo intervistavo Ginobili a Piazza Maggiore. Pagato per fare quello per cui avevo pagato fino a qualche giorno prima. Guardare pallacanestro.

Davanti alla mia postazione Stefano Benzoni, forlivese, l’anima candida della redazione. Quando chiamava uno scocciatore, era Benzo a gestire la criticità. Uomo d’altri tempi, nel 2000 era scettico rispetto a DVD e CD, devoto a VHS e musicassette. Se qualcuno si lamentava dei valori attribuiti da noi ai giocatori del FantaBasket, Benzo rispondeva che quel numero era stato prodotto dal “cervellone elettronico”. Molto Anni ’70.

Alla mia destra, Roberto Gotta. Taciturno, senso dell’umorismo irresistibile. Sempre immerso in centinaia di news che stampava da siti di NBA, NFL, NCAA, MLB o Premier League. Enciclopedia vivente, capace poi di tramutare in poesia tutte quelle competenze. Mai una banalità. Erano gli anni di Galeazzi imitato da Savino. Ogni tanto capitava che qualcuno di noi chiudesse la telefonata con un addetto ai lavori così. “Ah ciao Ataman, grande, un abbraccio, ti seguo sempre”. Il resto ve lo lascio immaginare.

Poi, Enrico Schiavina. Con lui e i suoi amici ho diviso anni di lunedì devoti alla pallacanestro giocata. “Facciamo paniere”, mi dicevano, e io non capivo. E non capivo neanche quando mi dicevano di “salire” o “scendere”, che poi equivaleva a entrare e uscire. Mago delle Minors, Enrico, ti sapeva dire chi allenava la B2 di Agrigento o la media punti del terzo marcatore della C1 girone B. Fortitudino atipico, amico vero.

Di fronte ad Enrico, Claudio Limardi. Fenomeno inspiegabile. Famiglia bellissima e numerosa, runner semi-professionista, giornalista extra-lusso capace di scrivere in tre ore l’analisi del Draft dei Bucks, un’intervista a Bulleri e la preview del turno di Eurolega. Senza una smagliatura, una dimenticanza. Io facevo un terzo delle sue cose, da single e senza correre, e con un quinto della sua qualità.  

Infine, Stefano Valenti. Fabrianese. Tra mille altre cose, seguiva la Nazionale, che in quegli anni vinceva medaglie anche alle Olimpiadi. Se c’era da fare uno studio sui motivi per i quali i playmaker di A1 tiravano da 3 meno rispetto all’anno prima, il pezzo era suo. Stefano riappariva tre giorni più tardi con 38.000 battute, 5 box e 2 tabelle. Contenti, i grafici. Suo lo scoop relativo al trasferimento di Basile al Barcellona. Un settimanale che brucia i quotidiani…

La stanza a fianco era occupata da Franco Montorro, il direttore. Fu lui a portarmi a Superbasket dopo essersi divertito a leggere l’house organ della Virtus Roma che mi divertivo a scrivere dal 1994. Franco mi preferì a stimati professionisti puntando su un romano sconosciuto e senza esperienza. Per questo proverò gratitudine eterna per Franco: senza la sua ostinazione, in questo istante sarei alle prese col 730 di Don Claudio da Avezzano.

Nei miei sei anni di SB, non sono mai uscito a mangiare una pizza con i miei sei colleghi, che poi divennero sette con l’innesto strategico di Mirco Melloni. Esigenze diverse, situazioni familiari diverse. La pizza poi la mangiavamo tutte le domeniche, quando ci vedevamo alle 17 per lasciare la redazione alle 2.00, dopo aver chiuso il giornale. Non avevamo bisogno di fare gruppo, nelle differenze eravamo già una squadra.

Ora siamo sparsi per l’Italia, tra uffici stampa e redazioni, ma quando ci incrociamo un abbraccio non manca mai. Sobrio. Composto. Discreto. Nel linguaggio tacitamente adottato per anni. A SB, con loro, ho vissuto gli anni più belli della mia vita

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Superbasket # 42 (dicembre 2018-gennaio 2019) | Pagina 10

Giancarlo Migliola

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